I rapporti intercorsi tra gli intellettuali emigrati negli Stati Uniti e la cultura italiana sono stati ampiamente affrontati nel corso del XX secolo. Quelli che apparentemente non sono stati messi in evidenza, se non in saggi locali spesso agiografici, sono alcuni carteggi tra coloro che potrebbero essere definiti gli intellettuali e i letterati minori che hanno affollato accademie, circoli e tipografie di New York e della provincia americana o italiana di quel tempo. Molti epistolari, carteggi e autobiografie di questi emigrati italiani sono raccolti all’Immigration History Research Center (University of Minnesota, Twin Cities) e al Center for Migration Studies (New York). Nell’intento di contribuire all’avvio di un’indagine sistematica sulla letteratura testimoniale che porterebbe al recupero di notizie private e pubbliche di straordinario interesse, consentendo tra l’altro d’indagare sull’evoluzione del modello retorico e sulla tipologia dei ritmi stilistici di ogni autore, proponiamo qui parte del carteggio intercorso tra Nino Caradonna, Rodolfo Pucelli e Giuseppe Zappulla, senza trascurare un intervento di Giuseppe Prezzolini e uno di Glauco Cambon, al limite dell’area. Il carteggio consente di mettere a fuoco gli aspetti della personalità del ricevente, di approfondire le motivazioni che stanno alla base di polemiche letterarie e personali, e di portare alla luce l’attività proficua e variata di tanti «intellettuali» che, seppur minori, hanno contribuito a vivacizzare l’ambiente culturale italoamericano negli anni cinquanta-settanta del Novecento. Nino Caradonna1 nacque ad Alcamo il 4 aprile 1898, emigrò negli Stati Uniti nel gennaio 1921 e morì a St. Louis nel 1980. L’epistolario di Caradonna è particolarmente interessante per vari motivi. Innanzitutto le lettere sono quasi esclusivamente risposte al nostro autore, ragione per la quale si ottiene una ricchezza prospettica sul suo carattere da parte dei suoi corrispondenti, facilitandoci il compito di «giudicarlo». Inoltre, il gran numero dei corrispondenti da varie parti del mondo e gli argomenti discussi ci offrono un ampio quadro dell’ambiente intellettuale e culturale italoamericano. Il personaggio, così come emerge dall’epistolario, possiede un carattere piuttosto debole e contraddittorio, che passa dall’ingenuità all’astuzia, è persona di limitata cultura anche se smanioso di riconoscimenti, coinvolto in quasi tutte le diatribe intestine che sconvolgono le numerose «tribù letterarie coloniali» d’itala origine ed è legato a tutti i movimenti pseudo-cultural-politici italiani del secondo dopoguerra. Caradonna ci appare come un vero victim/victimizer, succube della retorica a noi tanto cara, che però mantiene sempre un coerente e colorito linguaggio da polemista familiare, che utilizza sia per difendersi fino all’assurdo sia per attaccare i molti nemici invidiosi della sua vena poetica, che si riversa sulle carte di mezzo mondo in un italiano tradotto e talvolta storpiato in diverse lingue. Attorno a lui ruotano letterati/intellettuali di primo piano, sollecitati alla lettura delle sue poesie anche se i giudizi non sono sempre quelli sperati, e personaggi minori che con la poesia non hanno nulla da spartire e per questo esprimono quei giudizi a lui tanto graditi. Per entrare in argomento, conviene partire da una lettera del poeta e critico letterario Rodolfo Pucelli2 di New York, inviata a Caradonna il 23 maggio 1957, che inizia così: Dalla tua lettera rilevo che ti trovi a volte negli impicci. È logico. Io ti avevo avvertito che l’impresa dell’Academy era superiore alle tue forze, sebbene tu venga assistito da persone colte e capaci. Ma… capaci in inglese, non certo in italiano; e tuttavia hai bandito concorsi e li hai giudicati... ecc. So molto. Io me ne stetti lontano, fiutando le cose «da lontano», più per esperienza che per altre qualità che possiedo, come dicono. Lo scrivente continua mettendo indirettamente in evidenza la propria modestia – per esempio di non avere mai fatto sapere di essere presidente onorario della Columbian Academy; lo ringrazia per il ricevimento di un dollaro avuto a titolo d’iscrizione, e lancia strali contro coloro che definisce «i superbi o ignavi o presuntuosi» che cercano di ignorarlo; sostiene di voler rimanere lontano dalle polemiche non amate dai lettori, ma di sentirsi pronto a combattere apertamente, sicuro di vincere, ma solo se attaccato. Chiude infine con un accenno ironico a «Zap», cioè Giuseppe Zappulla, che crede di essere l’unico a pubblicare poesie. Il primo novembre del medesimo anno, Pucelli si meraviglia ancora, pur mostrandosi addolorato, che Caradonna abbia dovuto lasciare il lavoro perché mal retribuito, dopo essersi spacciato non solo per tipografo proprietario della piccola azienda, ma anche editore, e aggiunge: Non ti ricordi? Ora vieni a dirmi cose incredibili. E tu stesso mi dicesti - scrivesti, veramente – che se paghi hai la stampa a tua disposizione in ogni giornale o rivista. E un tale mi ha scritto con parola forte che senza di te, senza il tuo sussidio, sarebbe stato costretto a chiuder bottega... E tu sai che l’Accademia tua, e io sapevo ciò da un pezzo, non è che una finta per attrarre ingenui, tra cui molti ti hanno spedito 5 dollari per ottenere la tessera di socio onorario. E so che il concorso ecc. veniva condotto e giudicato dal buon Guido Massarelli, e che il primo premio l’ebbe un favorito, brava persona, sì, ma non troppo cortese verso i dotti sul serio come me. Dopo tale sfogo, lo accusa di avvalersi di titoli che non gli spettano. Lo infastidisce specialmente quel «Prof.» che fa precedere al suo nome perché la conquista di quel titolo era costata parecchi sacrifici a lui stesso: Se non eri ambizioso (e non è un male esser tale), dovevi pregare Massarelli di togliere i titoli in grande di Prof. e Dott... Non ti pare che sia cosa ingiusta quella di farsi ammirare per titoli sonori mentre non si possiedono, dato che ci vogliono 18 anni di studi per ottenere una laurea, e non già tre o quattro anni soltanto. E lo Stato la dà, non i privati. Io ho la tessera di Vice Direttore del Pungolo Verde, eppure appare mai tale mia carica, sia pure di poco valore. Se badi bene, tu sei il dominatore anche da New York. Vedi in testata del Pungolo Verde: che cosa sono io? Una «nullità». Chi fa cantare il cieco è il denaro. Dunque, caro Caradonna, abbiamo capito ogni cosa e se tu mi ribatti o tenti sotterfugi o scuse, sappi che hai di fronte un maestro autentico e non già un poeta coloniale. Pucelli continua rinfacciando all’interlocutore le irregolarità e il millantato credito, che potrebbero creare a Caradonna perfino problemi con la giustizia: Mi sfidi a trovare il vero senso dell’articolo: «Italian Poet dedicates book to Vincent De Lalla»3. Parlando di de Lalla, è scritto: «The Utica druggist and the poet (poet sei tu, non già Guenther, che è qui solo il traduttore), ecc. While the former (de Lalla) was earning his degree in 1907... the latter (namely the poet, i.e. Nino Caradonna) was earning his doctorate in Lit. from the University of Toronto.» Nulla di male, se fosse vero; ma è falso e quindi ti sei messo in pericolo di fronte all’autorità sia d’America che d’Italia. Per convincerti leggi avanti e vedrai che è scritto: «The translator, Guenther...» Dunque non si tratta di poeta, che sei tu solo in questo articolo. Se vuoi una spiegazione migliore della mia, chiedila a Oberdan Rizzo. Il tuo titolo di Dottore deve essere seguito da h.c., perché diversamente è falso. Inoltre il titolo di Dottore l’hai avuto con soli 3 dollari dal defunto Franco Di Napoli, poverino. Università e Accademie sono sorte in Italia dopo la guerra mondiale seconda come funghi, perché tutte affamate di qualche dollaro e di essere tenute in pregio. A me davano anche il titolo di Conte o di barone, ma l’ho rifiutato con sdegno. Io ragiono, tu no. E appena stai bene, Dio voglia presto, ti metterai al lavoro per pubblicare anche «Sogni e faville» [sic, ma non era già stato pubblicato nel 1938?], se no, io accennerò a fatti importanti avvenuti negli ultimi venticinque anni. Ho preferito non indagare se la chiusa della lettera rappresenti una vera minaccia, o un affettuoso ricatto «coloniale», per obbligare l’amico a pubblicare il suo ultimo volume di poesie. Pucelli, amico di Caradonna lo era di certo, tanto che si era prodigato per tradurgli una sua elegia, «La lampada votiva», in inglese, francese, tedesco, spagnolo e latino e lo aveva inserito tra gli autori della sua antologia4. Occorre riconoscere a Pucelli una notevole abilità nel creare un’aura di mistero nel momento stesso in cui svela congiure, perché in due sole lettere, e nemmeno tanto lunghe, accenna a una grande quantità di scambievoli favori, cita persone, riviste e istituzioni più o meno note che suscitano nel lettore una vivissima curiosità. Un esempio delle intricate relazioni che non di rado si traducevano in mutue concessioni è offerto da una lettera del 19 dicembre 1957 inviata a Caradonna dall’Italia, da un anonimo mittente – giacché la firma è indecifrabile – che termina con «un abbraccio fraterno», non prima di averlo ringraziato per i «sei diplomini della Columbian Academy» che gli aveva fatto pervenire. Unisco un ritaglio del n. 12 del Pungolo ove nomino te insieme a Rizzo Conigliaro di Milwakee… Ti ho fatto fare spedizione di 10 copie. Nello stesso fascicolo, nella rubrichetta intitolata «Notiziario» compariva un’altra ghiotta notizia per Caradonna che si vedeva insignito della medaglia d’oro attibuitagli dell’Accademia Letteraria Araldica Scientifica (Alas): La presidenza dell’Alas ha concesso la medaglia d’oro quali membri d’onore, agli scrittori: Prof. Oberdan Rizzo, di Dearborn Mich., dandone comunicazione al sindaco della città statunitense. Il prof. Rizzo, critico politico da Chicago e Detroit, è acuto redattore del periodico La Parola del Popolo e scrittore di vasta elevatura. Al Prof. Dott. Nino Caradonna, Presidente della Italian Section della Columbian Academy di St Louis, poeta delicato e sensibile, autore di una decina di libri e redattore letterario del Pensiero e del The American Citizen. All’artista Mr. Nicola Conigliano direttore della Open Studio Galleries di Grendale Wisc. Dunque, Caradonna e Oberdan potrebbero aver fatto pace ed essere stati decorati con medaglia d’oro dalla presidenza dell’Alas, in cambio dei diplomi concessi. L’Alas, attiva sotto l’alto patronato del principe F. Amoroso d’Aragona, era stata costituita a Treviso e aveva lo scopo, come si legge nel Pungolo di «riunire e fondere le migliori energie nel campo delle lettere, delle scienze tra i popoli della terra». Il numero dei soci era illimitato e l’accettazione delle domande era di pertinenza del Consiglio Generale accademico. La nota procede dando informazioni sull’organizzazione gerarchica della stessa associazione: A presidente è stato nominato il prof. Dr. Mirto Dall’Ongaro, a V. Pres. il Dr Francesco dall’Ongaro, a Segretario il Dr Prof Vittorio Ciaccia, a membri i Dottori Guido Marcolin e Luigi Grasso. Siamo certi che l’Associazione diretta da così eminenti personalità e nel campo della cultura e in quello sociale darà i suoi frutti migliori per lo sviluppo delle scienze e delle lettere e per la fratellanza dei popoli. La lettera continua a parlare di diplomi, comunicazioni, possibili favori, chiede informazioni sul «famoso» libro di liriche con le opere di Nanni del Mastro, ma l’interesse maggiore è per i diplomi: Quando puoi qualche diploma. Io ti verrò incontro ora che stamperemo la PRIMA ENCICLOPEDIA DEI CONTEMPORANEI e metteremo che la compilazione è stata fatta con collaborazione della Columbian Academy. Ma di questo ti scriverò. Edizione di lusso e di non meno di tremila profili di tutto il mondo. A presto il lancio senza economia di spese. Vedrai. Ma è il post-scriptum a chiarire il profondo rapporto culturale e di amicizia intercorrente tra i due interlocutori: Quando qualche invidioso mi scrive male di te... E solo qualcuno, rispondo nelle dovute forme e come si conviene. Possibile che vi è tanta invidia? Schifo! Naturalmente, gli scambi e le concessioni di diplomi accademici procedono anche verso il Sud America, ma è in Italia che il terreno è più fertile, dove Caradonna si lascia anche irretire in concessioni di titoli nobiliari5. Il desiderio di nobilitare le sue origini dovette essere stato assai forte ed assillante, costituendo d’altronde un punto debole della sua personalità che lo esponeva a facili irrisioni. Tuttavia, in un ambito ristretto di amanti di titoli e patenti, egli trovava sollecite collaborazioni, come si evince da questo passo di una lettera di Guido Massarelli, pubblicista e colonna del Pungolo Verde, già sul finire del 1970, esattamente il 5 luglio, che scriveva: Caro Nino, ho telefonato in Vaticano dove ci sono i libri della nobiltà italiana. Mi faranno la fotostatica delle pagine relative alla tua CASATA e me le spediranno in settimana. Mi hanno chiesto in cambio, sapendo che il Pungolo è l’organo della COLUMBIAN, alcuni diplomi della Columbian. Quattro per gli amici del Vaticano, dove spedisco la rivista e due o tre per me. Il Pungolo Verde di cui Pucelli era vice-direttore, pur avendovi poca responsabilità per la preponderante presenza di Caradonna, era il periodico della Columbian Academy. Come si legge nel frontespizio, esso era il mensile di lettere, scienze ed arti per gli scambi culturali italo-euro-americani. La sede centrale si trovava a Campobasso e contava venti segreterie in Italia e redazioni a New York, Parigi, Malta, Toronto, Lugano, Bombay, Bruxelles e Tunisi. Come si può osservare, la sua struttura era ampia e articolata. La rivista era collegata con istituzioni di prestigio, quali: l’International American Institute di New York; l’Académie de Lutèce e l’Académie Européenne des Arts di Parigi, la Columbian Academy, St. Louis; l’Ordine Cavalleresco del Bene di Roma; gli Echoes of Italy, ovvero stazioni radio di cinque Stati statunitensi; l’Accademia Robur di Foggia; la Populorum Progressio e l’Accademia Tiberina di Roma; la Libera Università Biofisica di Trieste; l’Accademia Internazionale. Immortali d’Italia sull’Italo Bosfero di Messina; la Libera Università Marconi di Asmara. La corrispondenza con Massarelli, avviata fin dal 1949, sarebbe durata a lungo quanto la loro amicizia. La prima lettera, che ha suscitato il nostro interesse, proviene dall’Italia, ed è del 7 luglio 1965. Essa, oltre alle solite questioni su diplomini ricevuti ed inviati, tratta di questioni di attualità a quel tempo. Vi è scritto infatti: Per le celebrazioni del poeta Giovannitti non credo che il Psiup ce la farà. È un partito con pochissimi proseliti nel Molise e non fa parte dei partiti dell’arco democratico essendo filocomunista. I socialisti, che sono forti e autorevoli, ce l’avrebbero fatta con successo e con l’intervento delle Autorità. Io stesso non leverei un dito, salvo qualche articolo sulle pagine regionali o su qualche rivista settimanale di grido. Lo presenterei come poeta italoamericano e niente più. Così vanno le cose in Italia ed io che dovrò ritornare il prossimo anno in USA non me la sento di farmi coinvolgere e non avere il visto delle autorità consolari, le quali si informano prima. E poi sono anticomunista, antimarxista, antirusso, questo sì e mi batterei con fierezza. Sembra che l’anarchico Giovannitti, ancor nel 1965 spaventasse non soltanto le autorità americane ma anche i socialisti che stavano preparando l’unificazione con i socialdemocratici. Massarelli gli ricorda anche il nome di una ispirata poetessa del Connecticut, Domenica Scimione su cui aggiunge: «Scriverò al Pucelli, o meglio non gli pubblicherò più nulla in modo irremovibile.» Nel frattempo, i timori riguardanti le celebrazioni in memoria di Giovannitti sembrano diradarsi, tanto che, due mesi dopo, il 24 settembre, Massarelli informa Caradonna sugli sviluppi della situazione: Mi sono incontrato con l’avv. Pietro Mancini, il quale ha riunito il direttivo per decidere sulle celebrazioni e lo scoprimento della lapide nel comune natio del grande Giovannitti. La relazione è positiva, ti scriveranno e organizzeranno per aprile prossimo. E anche questa è fatta. Io collaborerò per la conclusione dell’iniziativa. Ma appena un mese dopo, il 26 ottobre, anche la sua posizione è completamente cambiata, e scrive: Gli amici del Psiup senz’altro per aprile organizzeranno la manifestazione Giovannitti. Io l’ho già trasmessa attraverso l’agenzia di cui alla intestazione (Agenzia Giornalistica Montecitorio), per telescrivente a molti giornali. E ho copia di tale notizia stampa. Poi, a suo tempo farò un ampio articolo e una intervista con Clemente. La mia agenzia è una specie della United Press. Ma dalle lettere di Massarelli emergono altre stuzzicanti novità, come un ripetuto accenno a relazioni epistolari tra Caradonna e Pasternak, il quale avrebbe espresso giudizi su certi suoi componimenti lirici. Gli accenni si trovano in una lettera del 26 settembre 1965, ove è scritto: Carissimo Nino, ero in procinto di scriverti, quando mi è giunta la tua cordiale lettera con la riproduzione della cartolina di Pasternak, riproduzione che farò eseguire in cliché e riportare sul prossimo numero di Pungolo Verde insieme alla lettera, con una mia nota in calce. La lettera, indipendentemente dal giudizio sulle tue liriche, è interessante anche perché presenta un Pasternak inedito. Esattamente un mese dopo, il 26 ottobre, lo scrittore dissidente russo viene nuovamente citato: Caro Nino, ho avuto i diplomini e i due di EFFECTIVE MEMBERS sono andati ad un cardiologo di Salerno Dott. Prof. BIAGIO DEL RE e al Dott GIUSEPPE NOBILIO (Circumvallazione Clodia, 36 - ROMA) già direttore di Banca ed ora Ispettore generale presso il Ministero del Tesoro, romanziere eccellente. Leggerai la sua bibliografia sul n. 12 di Pungolo, nel quale c’è la traduzione della cartolina di Pasternak e la sua riproduzione... Non è facile conoscere i motivi che hanno fatto incontrare Pasternak, da poco premio Nobel per la letteratura, ed un poeta versatile che aveva sì diverse opere tradotte in varie lingue, ma non era certo di fama mondiale. Un suo compatriota, Giuseppe Zappulla6, proprio quel Zap «irriso» dal prof. Pucelli, sembra interessato a chiarire questo interrogativo. Se già Pucelli aveva redarguito l’amico per l’uso di titoli che non gli competevano, Zappulla è ancora più severo e non si perita di accusarlo pubblicamente di falso e di millantato credito a proposito del messaggio del romanziere russo. Lo fa sull’Italamerican di New York, nel fascicolo di novembre-dicembre 1965, p. 45, nell’articolo intitolato «Bravo, Caradonna!», che esce quasi contemporaneamente all’articolo sul Pungolo Verde. Data la dovizia di particolari forniti da Zappulla al riguardo del «carteggio Caradonna-Pasternak», vale la pena citare l’articolo nella sua parte più significativa: La Parola del Popolo di Chicago ha pubblicato nel fascicolo di ottobre-novembre 1965 in fac-simile e nella versione inglese una cartolina che, dice la rivista, fu indirizzata dallo scrittore Boris Pasternak il 16 settembre 1958 a un Prof. Richthofen che aveva tradotto in tedesco alcuni versi del sig. Nino Caradonna, il quale fa parte della redazione de La Parola del Popolo. Si potrebbe osservare che: 1) manca la firma; 2) la cartolina è illeggibile e, 3) non contiene nessuna lode per la poesia del Caradonna. Ma tutto questo non ha importanza, e non è difficile ammettere che Pasternak abbia scritto tale cartolina. Quello che importa, e conta moltissimo, è invece quanto segue. La versione della cartolina è seguita da una nota redazionale nella quale è detto che: «Circa un paio di anni fa nella rivista Italamerican di New York, apparve un articolo diffamatorio contro il nostro “associate editor”, Nino Caradonna, articolo che accusava il Nostro d’essere un millantatore, perché un paio di pubblicazioni d’Italia avevano pubblicato che Boris L. Pasternak, celebre poeta di fama mondiale, aveva letto e dato un giudizio sulla poesia del Caradonna.» Il resto della nota non c’interessa, e non sappiamo a quale risposta si riferisca, non avendo noi letto nessuna risposta all’articolo «diffamatorio». Ci interessa invece dimostrare che Italamerican non aveva scritto nessun articolo diffamatorio, ma aveva detto una verità molto semplice. Aveva detto cioè (nel fascicolo di marzo 1963) e riferendosi a un precedente articolo di un collaboratore della rivista, che il signor Caradonna «aveva avuto la faccia tosta di attribuire a Pasternak il brano di una prefazione apposta a un suo volume di versi da un certo Fulvio Provasi di Milano.» E aggiungeva che un fatto simile non era forse mai accaduto nella storia della letteratura. Ora precisiamo. La rivista Il Pungolo Verde, di marzo-aprile 1959 (pubblicata a Campobasso in Via SS. Cosmo e Dam. 16) pubblicava a pag. 3 una colonna con questo titolo: «Nino Caradonna risplende della luce italiana nei suoi volumi di versi nel giudizio di Pasternak.» Sotto il titolo c’erano in corsivo le parole «Mosca (U.R.S.S.)» L’articolo cominciava così: «Del libro di Nino Caradonna TRILLI VESPERTINI, tradotto in inglese da C. Victor Stahl, e pubblicato dalla Fairmount Publishing di St. Louis, Mo., con prefazione di Fulvio Provasi, Pasternak nella stampa russa ha scritto:» Seguivano tre paragrafi tra virgolette, che erano, secondo il preambolo, parole di Pasternak «scritte sulla stampa russa». Ora invece risultava e risulta e risulterà fino a quando esisterà una sola copia del signor Caradonna, che i tre paragrafi attribuiti a Pasternak erano stati presi di sana pianta dalla prefazione di Fulvio Provasi che si può leggere nel suddetto volume «Trilli Vespertini». Fulvio Provasi risiede a Milano in Via Montebianco al n. 24. […] Il giochetto di Caradonna consisteva nel far credere ai lettori del Pungolo Verde che Pasternak lo aveva lodato «sulla stampa russa» [...] E viene a parlare di «diffamazione». Che possiamo dire? Ripetiamo: BRAVO CARADONNA! Bravo per l’impostura commessa nel 1959, dopo che Pasternak ebbe il Nobel. Bravo per avere atteso sette anni (il suo libretto con la prefazione di Fulvio Provasi e i paragrafi addebitati all’ignaro Pasternak era uscito nel 1952) e per aver approfittato della fama raggiunta dallo scrittore russo per fare il suo meschinissimo gioco. Bravo per aver pubblicato ora una cartolina dove non c’è una sola lode per lui e bravissimo per aver accusato di diffamazione questa rivista che ha scoperto il suo stupido gioco e lo ha reso noto perché certe cose passano il segno e bisogna che qualcuno dica la verità! Come si può notare, la tecnica decostruzionista di Zappulla è logica e precisa quanto quella di Pucelli. Ambedue s’applicano ad un close reading sia del testo sia del contesto. È una strategia pari a quella messa in atto da un freddo ed inflessibile investigatore: stabilita la contraddizione tra i termini analizzati, i colpevoli vengono smascherati. Se rileggiamo il fascicolo testé citato da Zappulla, La Parola del Popolo (p. 28), vi troviamo appunto la traduzione dal tedesco, per mano di Pucelli, della lettera inviata da Pasternak a Richthofen, unitamente ad un richiamo della redazione ai fatti citati da Zappulla, per cui le notizie «false» apparse sul Pungolo potrebbero non essere addebitabili a Caradonna, ma frutto di spiacevoli equivoci, come spiega la redazione della rivista: Che qualche amico del Caradonna, interpretando male la nuova con un articolo apparso sul «Progresso Italoamericano» incluso nella lettera, prese una grossa cantonata, che spiacque al Nostro collaboratore, non doveva essere frutto di maldicenza. Prima di mettere nero su bianco occorre essere sicuri di quello che si afferma. Non sembra facile, però, dirimere la questione. Si può segnalare, tuttavia, che Pasternak, rivolgendosi a Richthofen, non gli negasse qualche elogio, ammettendo che: «delle Sue traduzioni poetiche mi piacciono soprattutto le seguenti: “L’opificio”, “Monito”, “Cos’è la morte”, “Estasi”, e “Luglio”.» Ma l’elogio è rivolto al traduttore più che al poeta, e non potrebbe essere stato altrimenti, perché Pasternak non conosceva l’italiano. La nota più interessante è costituita dalla sua presa di posizione contro il verso libero e in particolare contro l’ermetismo. A tal proposito, riportando altre considerazioni dello scrittore russo, Massarelli giunge a definirlo «un Pasternak inedito». Scrive infatti il Premio Nobel: Io non ho mai avuto propensione per la forma libera (per i versi liberi). Ciò mi rende difficile l’intendimento della maggior parte della poesia d’oggi. Questa avversione non si limita soltanto alla produzione presente, ma si riferisce anche alla forma libera aforistica. Questa astrusità degli apoftegmi che comincia dove vuoi e non finisce in nessun luogo, è per me di poco valore e troppo facile da ottenersi; perciò per me non significa molto. Io ho bisogno di un pezzo di scelta, di un impedimento, che questa spiritualità che si strugge mi metta alle strette e mi dia l’impronta più importante ed essenziale. Mi rallegra molto ciò che in parte Lei stesso dice nella prefazione, in parte in esecuzioni straniere circa la vittoria sull’ermetismo e ciò che dice la società del dopoguerra. Mi è molto affine e combina con i miei propri pensieri. Nella pagina seguente, nella rubrica «Frizzi e sberleffi», Caradonna tenta di spiegare e chiarire l’avversione di Pasternak per la poesia in forma libera, specialmente per quanto riguarda i grandi del passato, e azzarda: Opino che Pasternak alluda alla forma liberissima che parte da Marinetti sino a oggi... Egli parla di queste forme liberissime che, ad onor del vero, gli apoftegmi principiano dovunque e non finiscono in nessun luogo, versi che spesso non sono affatto versi, e che sovente non suonano affatto, zeppi di astrusità che neanche il famoso Edipo riuscirebbe a indovinarne il dire, dire che spesso si riduce, come mi affermava Stefano Viola, ex direttore di un quotidiano di Brescia, in qualche povera mammaluccata. Concludendo, ecco la ragione perché i poeti che aspirano alla redenzione della classe lavoratrice dovrebbero comporre i loro versi in forma accessibile al comprendonio dei lavoratori a cui devono essere rivolti i loro pensieri. L’elzeviro continua con riferimenti critici a papa Giovanni XXIII e a Moravia, resi «ermetici» dalla sua prosa stentata e infarcita di americanismi del tipo «ecco la ragione perché» e dalla sua poetic diction ricca di «opino», «principiano», «il dire», «mammaluccata», «redenzione», «comprendonio», e così via. Nasce il sospetto che, seppur egli tenda alla semplicità, sia affetto dal complesso di quell’Edipo appena citato nei confronti della tradizione letteraria italiana romantica e post-romantica di cui parlerà Prezzolini. Ma a questo punto è lecito chiedersi quali pregi avesse la poesia di Nino Caradonna, che cosa ne pensassero i lettori e i critici del tempo, chi fossero i suoi traduttori, e come la tradussero. Una prima risposta può trovarsi in un paio di lettere indirizzate a Caradonna nel 1958 a proposito dei Canti esotici degli Ozarks, che consentono di valutare anche il diverso livello intellettuale e le differenti sensibilità degli interlocutori. La prima lettera è del 15 aprile 1958 e reca la firma di Joseph Tusiani7 che gli scrive da New York. Eccone il testo: Mio caro amico, ho letto con molta attenzione e serenità di giudizio la versione del Guenther e Le dirò, con assoluto candore, che, al Suo posto, io non presenterei il volumetto ad americani intenditori di metrica e, soprattutto di poesia. Le rime, qui e lì usate, sono di una banalità avvilente; i metri chiusi son quasi sempre claudicanti; i metri liberi, invece, nell’aderire alla lettera, non rendono, in inglese, l’idioma originale: sono sciatti e spesso volgari. Basterebbe il solo «Exordium» a bocciare il traduttore: metrica errata, elisioni impossibili, qualche parola assurda (es. «Genie») e libertà arbitrarie che alterano il significato. «Shade», per es., nel verso 8, vuol dire «frescura»; l’opposto della luce è «shadow»; ma dato che il verso non veniva, il traduttore s’è permesso l’uso di un tale erroneo monosillabo. Si tratta, insomma, di un lavoro frettoloso, pedestre, compiuto senza poetica sensibilità. Non si lasci ingannare da amici ignoranti che potran dirle che questa versione è piaciuta, ecc. ecc. Se io non La stimassi, non Le parlerei con tanta sincerità. E, appunto per questo, mi astengo dal render pubblico il mio giudizio. Ed ora voglio augurarmi che non mi serbi rancore. Cordiali saluti dal suo J. Tusiani P.S. Non mortifichi il povero Guenther; ormai il fatto è fatto. Non vorrei ch’Ella avesse speso del denaro per una simile versione! Alla lettera di Tusiani, poeta egli stesso, buon conoscitore dell’italiano e dell’inglese, che si è espresso con il necessario rigore ma anche con una serena ed umana comprensione, s’aggiunge, a distanza di poche settimane, quella di Umberto Liberatore, spedita il 30 giugno 1958 da Yonkers, New York. Mio Caro Caradonna, non appena ho ricevuto il tuo ultimo volumetto di «Canti Esotici degli Ozarks» mi son messo a leggerli e mi è bastata una sola lettura per poterti dire che tu con questa nona opera hai fatto bello ed arguto lavoro. Tu scrivi in lingua e dialetto siciliano ed il Guenther ti traduce il tutto ad hoc., senza che dimostri alcuno sforzo. Anzi, a dire il vero, egli non solo ti traduce letterariamente bene, ma, alle volte, fa opera poetica costruttiva ammirevole. Mi piacciono i tuoi canti questa volta più degli altri, appunto, per le interposizioni dialettali che vi apponi e su cui ogni pezzo si evolve e si conclude. Dove hai tolto: Occhi celesti, occhiuzzi risulenti, chi l’arma mia d’amuri mi ’nciammati: che il Guenther traduce: Eyes of laughter, eyes divine, that set my soul with love afire, Oppure questi: Rusidde vi chiamasti e rosa siti, rosa di li chiù beddi, spampinata. che il Guenther traduce: Rose you are called and a rose you are, the most beautiful, luxurious rose. E poi dove hai appreso gli spunti sulla saggezza di Confucio e di Brama? Di «Il Santo e il Poeta» scrivi: Scrivesti: «Dopo il santo vien l’aedo!» E chi può contraddirti, o fratel mio? e il Guenther ti traduce così: You wrote: «After the holy man comes the bard!» And who can contradict you, O my brother? In «Sincerità» dici: «Odio il verso che suona e che non crea». che è, come ognuno sa del Foscolo, ma poi continui: le smorfie del giullare; le querimonie insipide e balorde del poetastro, la critica meschina e disonesta di chi si rode d’invidia. Aborro la brodaglia strampalata, priva di senso e suono, oggi imperante nell’itale contrade, echeggiante un aborto nato oltr’Alpe che una masnada di birboni e ciuchi proclama poesia, sperando di scalzar da l’alto seggio l’eterno Vate e di porre in oblio sei secoli di gloria e di splendore profusa al mondo da l’italo genio! Detesto questi eunuchi menestrelli che si accalcano invan su l’erme falde del Pindo, ostruendo il passo al vero aedo! che il Guenther traduce così: «I dislike verse that sounds without creating». the grimaces of the troubadour; the insipid foolish laments of the poetaster, the petty and dishonest criticism of those who chafe with envy! I abhor the extravagant hogwash, deprived of sound and sense, now holding sway in the Italian countryside, echoing an abortion born beyond the Alps that a gang of rogues and donkeys call poetry, hoping to dethrone from his high place the eternal Bard and put into oblivition six centuries of glory and splendor profuse in the world from Italian genius! I detest those ministrel eunuchs who vainly crowd upon the pillared slopes of Pindus, blocking the true poet’s way! e non si può fare a meno di dirti che con questa lirica tu sia riuscito finalmente a dire la più scottante e sacrosanta verità. Hai fatto, questa volta, opera luminosa e nuova nel concetto e nella forma ed io, per primo, te ne sono grato. Continua a darci opere così fatte ché la persona onesta e intelligente ti apprezzerà. Saluti a te ed al Guenther, Tuo, Umberto Liberatore La missiva, come si può osservare, retorica, superficiale, adulatoria, nella sua banalità e sostanziale rozzezza, sembra addirittura celare una ironia grossolana di sapore bertoldesco. Sulla falsariga di Tusiani si muove anche Prezzolini, il quale, il 17 agosto 1965, rispondendo a una lettera di Caradonna, si esprime con intelligente umanità pur non mitigando il giudizio negativo già espresso sui versi di Caradonna: Preg.mo sig. Caradonna, mi dispiace di risponder tanto in ritardo e ringraziarLa per la ristampa del mio articolo sugli Emigrati italiani del 1874. Son stato lieto che un giornale di idee così differenti dalle mie l’abbia riprodotto. Generalmente è difficile trovare avversari in buona fede, che fanno sentire le proprie parole e non le travisano. Una sola cosa vorrei obiettare: l’accusa che io avessi tra i miei amici dei «prominenti» coloniali, dei padroni dei giornali etc. In trent’anni li ho tenuti sempre a distanza. Per dovere d’ufficio ne ho avvicinato qualcuno. Ma amico non son mai stato. Ai loro servizi mai. E quello che ne pensai l’ho scritto nei Trapiantati e certamente non piacque loro. Non s’abbia per male di quello che io scrissi delle sue poesie. Lo so che l’amore dei poeti per i loro versi è appena paragonabile a quello dei padri per i loro figli, che trovano sempre belli, intelligenti, bravi, buoni, etc. Quando lei osserva che non conosceva i poeti che a me pare che lei ripeta, son sicuro che lei dice la verità perché la stimo come persona morale; ma l’imitazione viene anche senza conoscenza diretta; viene dall’aria, ossia dalle conversazioni, dai giornali, da elementi accidentali etc. Non le pare che le basti la soddisfazione di aver scritto versi? Perché cerca l’elogio degli altri? Che cosa le importa? A me parrebbe, se fossi poeta, sufficiente premio la poesia stessa. Gradisca i miei cordiali saluti e mi creda suo aff.mo G. Prezzolini Prezzolini, com’è noto, è stato tra gli osservatori più attenti e puntuali dell’opera degli scrittori italoamericani e i suoi giudizi limpidi, sereni e profondi sono quasi tutti raccolti nel volume I trapiantati8. Critico ben più severo, e forse animato da antipatie personali, è un altro poeta già qui citato: ci riferiamo a Giuseppe Zappulla che dedica a Caradonna, nel dicembre 1962 un intero dattiloscritto di 15 cartelle dal titolo «Nino Caradonna e i suoi metodi». Esso contiene, tra l’altro, un particolareggiato commento alla poesia «Sincerità», tanto lodata da Liberatore: Come ognuno vede questa roba non è poesia se non per il ritmo: è una brutta prosa volgare, astiosa e inconcludente, che esprime nella prima parte sentimenti comuni e legittimi che, se diretti in genere (e non a un identificato singolo individuo) a coloro che fanno versi brutti che non creano, ai poetastri da strapazzo e ai critici meschini e invidiosi, non possono essere condivisi da tutti coloro che amano la vera poesia e la critica seria. Ma queste cose si dicono meglio in prosa, e con maggiore dignità di linguaggio ed efficacia. Che se poi fossero dirette a un solo individuo, noi vorremmo chiedere al Caradonna di farci sapere chi è per vedere se gli strali del poeta colgono nel segno o no. Nella seconda e terza parte l’autore generalizza e parla a vanvera, scagliandosi evidentemente contro la poesia che fu detta ermetica e che ebbe origine dalla poesia dei simbolisti francesi. Ma l’avversione verso questa poesia non giustifica in alcun modo la qualifica di «brodaglia strampalata» meglio applicabile certamente a certa poesia antiquata, facilona e pedestre di nostra conoscenza. È assurdo condannare in tal modo tutta la poesia nata da quella corrente perché tra le cose meno belle o discutibili sono venute fuori eccellentissime cose che anche gli avversari hanno accettato e lodato. Soltanto l’ignoranza e la faciloneria possono dettare simili qualifiche. Il Caradonna cade poi nell’assurdo quando parla di «aborto» e di «una masnada di birboni e ciuchi» e rivela, oltre alla propria ignoranza, quella mentalità propria degli scrittori dozzinali i quali, quando non capiscono quello che leggono, danno dell’asino all’autore, fosse anche costui il più acuto ed esperto del mondo. Tutti ciuchi e birboni quelli che hanno lodato la poesia moderna! Solo il Caradonna è un sapiente e un galantuomo perché l’ha qualificata «brodaglia strampalata» e «aborto». Ma il resto è ancora più sciocco, perché nessuno ha pensato di «scalzare dall’alto seggio l’eterno vate e di porre in oblio sei secoli di gloria e splendore profusa (bisogna anche tener conto di questa sgrammaticatura) al mondo.» Quale eterno vate? È un singolare questo di valore collettivo col quale il Caradonna intende designare quali poeti? Chi sono quei Vati che stanno sull’alto seggio? Forse, o evidentemente, i poeti come Caradonna. E vengono poi gli «eunuchi menestrelli che si accalcano invan su l’erme falde del Pindo, ostruendo il passo al vero aedo!» Ma chi sono costoro? E chi è «il vero aedo?» Certo di menestrelli ve ne sono a migliaia, ma il Caradonna non è proprio l’individuo che noi diremmo capace di individuarli, tanto più che costoro si trovano più numerosi tra gli ignoranti seguaci della tradizione (spesso incapaci di tutto) che tra i seguaci dell’ermetismo, generalmente più colti dei primi. Ed è proprio sciocco dire che costoro ostruiscono il passo al vero aedo, ammenocché il Caradonna non intenda dire che il vero aedo è lui e che egli non riesce a salire sul monte Pindo perché costoro gli impediscono il passo. E se poi nella prima parte il Caradonna si riferisse a qualche specifico individuo, noi ripetiamo vorremmo sapere chi è e magari avere il piacere di dar ragione a Caradonna se quel tale fosse proprio un poetastro, un critico meschino e disonesto, invidioso di Nino Caradonna! E sì, dovrebbe proprio essere uno strano animale per invidiare il nostro autore giacché non è mai accaduto che oggetto d’invidia fosse uno che non ha ottenuto nessun riconoscimento, che non ha prodotto nulla di buono, che scrive versi di questa fatta. Certamente non si può far a meno di apprezzare la difesa del simbolismo francese e dell’ermetismo da parte di un nemico qual è Zappulla, ed è difficile non condividere lo sdegno dello stesso per un componimento come «Sincerità», sul cui titolo nessuno può obiettare, ma che tutto può essere considerato fuorché poesia. Non mi spingerei con Zappulla al punto di pensare che Caradonna pensi di potersi identificare con l’eterno vate, seppur egli sicuramente pensi di poterne essere in qualche modo l’erede, anche perché è evidente che non può essere altro che il solito povero Dante, nominato padre naturale della tradizione poetica italiana, anche se poi di seguaci ne ha trovati ben meno del fratellastro, Francesco Petrarca. Ma come si può, signor Zappulla distruggere la reputazione di un poeta sulle basi di una sola poesia? A dire il vero, nella pagina precedente ne aveva citata un’altra, «Amor di mamma», non certo accusabile di arroganza, ma che senza necessità di profonda analisi testuale, dopo averla letta una volta sola, permette a Zappulla di liquidare in questo modo: «Un sonetto così ingenuo, mediocre, romantico, scolastico fa sorridere, tanto più che l’ultimo verso, molto più lungo della regolare misura dell’endecasillabo, avrebbe dovuto rivelare subito al compilatore della sezione poetica di quella rivista l’inesperienza dell’autore». Il giudizio di Zappulla su Caradonna non differisce molto da quelli espressi da Prezzolini su numerosi poeti coloniali9. Ciononostante, essi riuscivano a pubblicare i loro lavori ed a godere di un certo favore tanto in Italia quanto negli Stati Uniti. Forse la spiegazione di tanto incongruente situazione si trova in un passo dello stesso articolo di Zappulla, laddove afferma che: Si pubblicano in Italia, soprattutto nel Sud, molte riviste cosiddette «letterarie» nelle quali appaiono gli scritti di poeti ignoti e di scrittori in erba. Farebbero un’opera utile se gli scritti che pubblicano non fossero nella maggior parte dei casi estremamente poveri, spesso ingenui o addirittura infantili, e se non facessero posto a recensioni e articoli superlativamente laudativi di opere che appena lette si rivelano per quelle che sono: composizioni di nessun valore, stilisticamente puerili. Molte di queste pubblicazioni «letterarie» si giovano della collaborazione di poeti italiani residenti in America che chi è vissuto nella loro terra da molti anni conosce a fondo ed ha già giudicato come appartenenti alla folta schiera di coloro che si affannano inutilmente per anni di raggiungere la poesia senza riuscire mai a produrre nulla che sia veramente meritevole di attenzione. Si deve supporre che costoro siano larghi di aiuti finanziari a queste riviste generosamente ospitali, tanto più che queste li presentano con molte pagine di poesie loro, con articoli di altissima lode e con grandi fotografie che certamente rappresentano una spesa superiore alle forze finanziarie di quelle riviste. Oltre queste capita di tanto in tanto di vedere una rivista di lusso, grande, di serie intenzioni, dedicata a problemi di pensiero filosofico, che nella sezione dedicata alla poesia accoglie i versi di qualcuno di questi poeti con accanto una versione in inglese. Queste accoglienze non spiegano facilmente, e si deve arguire che chi decide di pubblicare qui versi non riesce a distinguere tra poesia vera e poesia che non è poesia. Una di queste riviste s’intitola Hestia, ed esce a Foggia (Casella postale 93) da un paio d’anni, come Rassegna dell’Associazione Nazionale di Cultura. Nel fascicolo No. 4 dell’anno I (che abbraccia i mesi di ottobre, novembre e dicembre 1961) vi ho trovato due poesie (con relativa traduzione accanto) di Nino Caradonna... Ecco dunque riapparire Caradonna in veste di poeta dapprima umile e ansioso di apprendere e poi arrogante e presuntuoso. Ma la storia della sua amicizia/inimicizia con Zappulla è tanto emblematica che conviene conoscerla nei particolari proseguendo la lettura dell’articolo che così conclude: Occorre ora che io faccia un salto indietro nel tempo. Nel 1936 (è un salto di 26 anni) subivo i continui, ripetuti e volgari attacchi di un noto poetastro «coloniale» che avevo beneficato e mi aveva crudamente ingannato molti anni prima […] Ed ecco giungermi inaspettatamente questa breve missiva in data del 26 aprile: Egregio Signor Zappulla, L’invidia e la codardia di quel famoso strampallatore (sic) di versi insipidi, non accori la sua anima nobile. Saluti Nino Caradonna La lettera veniva da Cleveland, Ohio, e consisteva di un foglietto doppio sulla cui terza pagina erano stampati dei versi. Non sapevo chi fosse lo scrivente, ma gli scrissi poche parole di ringraziamento. Il Caradonna mi scrisse di nuovo e mi chiese un giudizio sui versi che mi mandava. La richiesta mi pareva sincera: di uno che voleva avviarsi nel campo dell’arte e si affidava a chi ne sapeva di più. Così non esitai e gli diedi giudizi e consigli. Non posso riprodurre qui le varie lettere del Caradonna che conservo sin da quel tempo, ma citerò alcune frasi. Il 3 maggio (stesso anno) scriveva: «È mio principio di non cercare il pelo nell’uovo – specie nella poesia, che non è cosa facilmente remunerata – Tizio o Caio cerca di fare del suo meglio per lasciare ai posteri qualche sprazzo di vita.» Comincio a capire il tipo: Caradonna pensava che la critica fosse una cosa da nulla o dannosa, e credeva che i poeti scrivevano per i posteri! Le stesse cose ebbe poi a dirmi un altro poeta, egualmente ingenuo. Più giù, nella stessa lettera, una sgrammaticatura: «Ringrazio il suo giudizio circa i miei modestissimi versi e stimerò mio dovere di inviargliene altri.» Dovette esserci un intervallo di silenzio da parte mia tra questa sua e la sua prossima giacché in questa, del 20 maggio, mi scriveva: «Avrei dovuto ricevere già un suo riscontro, però temo che il mio concetto sugli scrittori in genere abbia potuto creare un malinteso. A scanso di equivoci mi affretto a notificargli (sic) che non ho letto altro dei suoi lavori che quel sonetto pubblicato nel «Corriere Siciliano», perciò il mio giudizio non tange, neanche lontanamente, i suoi lavori poetici.» Poi mi diceva che faceva un giornaletto (mi aveva già detto che era tipografo e aveva una tipografia propria) e mi chiedeva di mandargli versi miei che avrebbe pubblicato. Non gli mandai nulla, ma gli scrissi. E in data 29 maggio ecco un’altra sua lettera, abbastanza lunga, con la quale confutava certe cose che io devo avergli detto, perché scriveva: «In verità sono del parere che la metrica è la base della poesia, però il concetto è quello che deve dominare vieppiù il critico (?), perché “Il libro non val niente, se il libro scritto non rifà la gente”.» E più in giù: «Circa il mio scrivere tanto per distrarmi dalle mie attività politiche, e sino a pochi mesi fa non avevo dato neppure uno sguardo a qualche manuale di metrica, perciò comprenderà la mia situazione in poche parole... Non abbia nessun timore e sii sincero perché in me troverà uno scolaro rispettoso e buono. In attesa di leggerlo, dev.mo suo Nino Caradonna.» Non ero uso a diffidare, non pensavo che uno che chiede aiuto a questo modo potesse essere un presuntuoso, un megalomane, come poi si doveva rivelare costui, e continuai a dargli dei consigli. Ecco infatti la sua susseguente lettera del 14 Giugno: «Ho studiato i suoi eruditi consigli e la ringrazio della sua gentilezza, come, per la disanima circa i miei poveri versi. Sono dolente dirle che non ho soverchio tempo per studiare.» Diceva poi che se avesse potuto, avrebbe scritto «per un fine morale», e concludeva: «Secondo Ella (sic) la poesia è arte, sì, ma io brucerei tutti quei libri che fanno perdere del tempo alla povera umanità, brucerei tutti quei libri che dicono, dicono, dicono un corno. Scrivere del fumo, vendere del fumo, per me è un delitto, e Benedetto Croce ha perfettamente ragione quando staffila a sangue D’Annunzio, Pascoli e Fogazzaro.» Chissà dove il Caradonna aveva letto queste cose! Si vedeva chiaramente che non aveva capito nulla e che aveva le idee confuse, bislacche, e credo che dovetti rispondergli un po’ duramente perché la sua lettera che seguiva a quella citata, scritta il 21 luglio, ha un tono affatto diverso dalle precedenti. Gli avevo mandato un mio opuscolo di risposta a un altro poetastro che mi aveva attaccato con violenza inaudita perché dieci anni prima aveva [sic] severamente esaminato un suo volume di versi di nessun valore, e secondo il Caradonna non avrei dovuto rispondere come avevo risposto perché davo molto credito all’avversario, etc., etc. Concludeva con questa frase: «Ha! quanto è vera la mia cosiddetta teoria del “Pelo nell’uovo”!...» Sempre più Zappulla si rivela critico attento, meticoloso, scientificamente inoppugnabile perché sempre sui documenti che riporta con dovizia, spesso interamente, e nel suo dattiloscritto continua imperterrito a commentare con competenza critica e letteraria sull’inconsistenza delle basi culturali del poeta Caradonna e, dando libero sfogo alla propria indole di equilibrato moralista, evidenzia anche la fragilità comportamentale dello stesso, finché: Ma ecco che un anno e quattro mesi dopo, il 21 novembre 1937, il Caradonna si rifaceva vivo, dandomi di nuovo del lei e cominciando con un «Egregio signor Zappulla». Si domandava perché «la nostra amicizia sia venuta a meno», e diceva che «tutto quello che a suo tempo io le scrisse (sic) aveva un carattere amichevole e non polemico, vedute personali e consigli amichevoli.» Scriveva: «Lei non mi risponde più, benché io non le abbia fatto nulla di male. Ancora, dopo la mia ultima lettera, le ho inviato qualche mio lavoretto sperando che Lei mi avrebbe risposto e riaccesa la fiamma che ci lega, perché io dal primo momento che allacciai relazione con Lei non lo feci per nessun motivo degenere, ma perché, per me, ogni poeta è un’anima nobile che merita rispetto. (distinguiamo il rispetto per il poeta e per la poesia, quando non scrive poesia; quanto poi alla nobiltà d’animo... ecco la confusione) Curioso il fatto che fra la lunga schiera di amici con Lei solo non ho potuto conservare l’amicizia, Lei che è un mio conterraneo e se non erro delle mie idee.» Concludeva: «sperando in una Sua risposta e che dimentichi il passato, se offesa io le abbia fatto, ciò che io credo, La saluto distintamente.» Ne avevo avuto abbastanza e quest’ultima lettera mi convinse sempre più che avevo a che fare con un bel tipo, e che sarebbe stato inutile tentare di farlo ragionare perché la sua infarinatura letteraria era una di quelle cose che fanno più male che bene. Accade sempre che la perfetta ignoranza è mille volte preferibile alla superficialissima coltura male assimilata che uccide l’umiltà e non conferisce la conoscenza. Con questo assioma Zappulla sembra interrompere momentaneamente la cronologia del suo rapporto poetico-epistolare con Caradonna, ma al contrario subito lo riprende, tentando di ricostruirlo il più fedelmente possibile. Passarono molti anni. Nel 1954 inizia la pubblicazione di Novità, rivista culturale mensile. Non avevo saputo più nulla di Caradonna e lo credevo ancora a Cleveland: Ma vidi, non so più dove, che un Nino Caradonna abitava a San Louis, Mo., e che faceva precedere il suo nome dal titolo di «Dottore». Pensai che potesse trattarsi di un altro e gli mandai un paio di numeri della rivista. Era invece lo stesso Nino Caradonna che io conoscevo e del quale ebbi poi (o forse avevo già avuto) una cartolina a stampa con la sua fotografia e accanto un sonetto che faceva il suo ritratto, come si usava ai bei tempi del Foscolo e dell’Alfieri. Mi giunse una lettera del «Dr. Caradonna» datata 14 aprile 1954, piena di lodi per la mia rivista e specialmente per la pagina di poesie scelte che conteneva, di interrogativi sulla possibilità di far accettare consigli letterari e contenente tra l’altro questa strana domanda: «E come vivrebbero i giornalini e le riviste anemiche che si pubblicano in questa o in quell’altra città?» La quale domanda significava che una rivista, se vuol vivere, non deve selezionare, ma accettare tutto, precisamente come facevano le rivistine provinciali d’Italia che esaltavano Caradonna e tanti altri. Infine diceva: «Noti che ricevo tante riviste d’Italia, spesso non so cosa leggere prima e se le pagherei (sic) tutte starei fresco... Mi dica cosa vuole da me.» Dunque era lo stesso Caradonna di prima, ancora incapace di scrivere senza sgrammaticature, e gli risposi con poche parole concludendo che non volevo nulla e che se mi fosse stato possibile gli avrei mandato la rivista gratuitamente. Avevo cominciato così: «Ricevo la sua lettera. Constato che le nostre vedute non collimano – come al tempo di un precedente scambio epistolare. Ma non importa.» È necessario ch’io riporti questo periodo perché la risposta che mi giunse non faceva senso e dimostrava che il Caradonna o aveva dimenticato tutto o mi scambiava per un altro. Ecco cosa scriveva: «Non è detto che le nostre vedute devono collimare. Forse, domani, collimeranno in qualche altro soggetto. In quanto al precedente scambio epistolare, ad onor del vero, debbo dirle che non conoscevo bene l’Altro e presi una piccola cantonata. Si dice Il tempo è galantuomo. L’Altro pecca di gelosia e lo constatai nel leggere una recensione che doveva esser favorevole al poeta Pietro Greco per il di lui libro Alba e tramonto: ma che invece ridusse il mio povero, ma poeta vero, Pietro in una nullità perfetta. Lei forse non crederà che mi giunge giornalmente tanta posta da non sapere cosa far prima o cosa leggere prima. Se ne desidera un po’ gliela invio settimanalmente. Gradisco la sua deliberazione d’inviarmi la rivista gratis (perché non dire in omaggio?), il che spingerà la mia coscienza ad abbonarmi.» Non capivo più nulla. L’Altro? E chi era l’Altro? E cosa c’entrava? Possibile che Caradonna avesse dimenticato la nostra corrispondenza del ’36 e ’37? Mi aveva preso per un altro, ma poi, essendosi accorto della «piccola cantonata» non dava segno di ricordarsi di me. [Terribile!] «L’Altro» era Rodolfo Pucelli, il più prolifico dei poeti italiani d’America, eternamente arrabbiato contro il mondo perché non riconosceva la sua grandezza e non gli dava le ricchezze che egli meritava, mio implacabile oppositore perché non avevo trovato nulla da lodare nella sua poesia e molto anzi da condannare… Ma la frase più sintomatica era quella in parentesi: «(perché non dire in omaggio?)» Gli risposi brevemente che ero rimasto sorpreso del suo equivoco, che io non ero «L’Altro» e che non sapevo (allora) chi fosse costui; che non avevo nessun desiderio di leggere la sua posta e che visto che non aveva tempo mi sarebbe parso inutile mandargli la mia rivista. Concludevo: «Molto avrei poi da dire sulla sua domanda “perché non dire in omaggio?”, ma sarebbe troppo lungo discorso ed io non ho tempo.» Così ebbe fine la mia corrispondenza con Caradonna. E qui il saggio procede, tornando alla storia di Pasternak. Ci conviene perciò abbandonare momentaneamente il teso filo che lega inestricabilmente i nostri tre compaesani, per avventurarci in un mondo precedentemente a noi sconosciuto, l’intervento di alcune donne nella vita poetica di Caradonna. Nelle poche donne di cui abbiamo avuto la fortuna di reperire non solo testi poetici, ma anche semplice corrispondenza, ci sembra di dover notare una profonda contraddizione. Da un lato sembrano delle ottime ascoltatrici, tanto che riescono a leggere quello che veramente i testi riportano e a capirli quasi meglio degli scrittori stessi. Dall’altro falliscono miseramente nell’affermarsi all’interno della tradizione a cui i loro maestri tentano di educarle. Per quanto si sforzino di imitarli, non ci riescono, a loro scappa sempre un’espressione mai ritrovata negli originali, strambi sentimenti e ragionamenti che nessun critico si permetterebbe di palesare senza qualche vergogna, sembra proprio che non riescano ad essere se non loro stesse. Sembrano quasi spontanee e originali contro voglia. Come è possibile che queste piccole ignorantelle che ascoltano tutti siano originali, mentre i nostri grandi, che non ascoltano nessuno se non loro stessi, non ci riescano? Questi sono di quei rompicapo che, pur avendo sempre voluto affrontare di petto, non sono mai riuscito a risolvere per paura di entrare in quegli agghiaccianti labirinti che più impari a percorrere, più percepisci la difficoltà ad uscirne. Le donne affascinate dall’ombrosa musa di Caradonna, venata di struggente maschia debolezza, sono parecchie e debbono certo aver suscitato l’invidia di un maggior numero di colleghi, di quanto n’abbia suscitata la sua produzione poetica. Tra tutte mi immagino Bruna come una delle tante sconosciute, di cui non importa sapere il cognome, l’albero genealogico, che cosa avrebbe potuto fare se fosse nata un uomo, o quant’altro. Di lei bastano informazioni generiche: che sia di origine italiana ce ne rendiamo conto perché scrive in un italiano scorretto, ma non certamente coloniale; che sappia correttamente l’inglese ce ne rendiamo conto quando commenta le traduzioni delle poesie di Nino; che sia una donna tradizionale con desideri contrastanti di «principe azzurro» e di un figlio, ma cosciente di sentirsi spesso «restless», quasi «matta» ce lo confessa nelle sue lettere; che riesca a capire il senso della poesia, anche di quelle brutte, anche di quelle spudoratamente romantiche, invece, è solo un mio atroce sospetto. Lo scambio epistolare dura alcuni anni... ma da una dobbiamo partire: (26/9/57) Caro Nino, Chi è felice non scrive. Ne ho pensato su questo. Vi è anche il soffrire troppo fondo per parole, e per lacrime. Scrive Elisabeth Barnett Browning («Grief» – Sonnets from the Portuguese)10 GRIEF      I TELL you, hopeless grief is passionless; That only men incredulous of despair, Half-taught in anguish, through the midnight air Beat upward to God’s throne in loud access Of shrieking and reproach. Full desertness, In souls as countries, lieth silent-bare Under the blanching, vertical eye-glare Of the absolute Heavens. Deep-hearted man, express Grief for thy Dead in silence like to death-- Most like a monumental statue set In everlasting watch and moveless woe Till itself crumble to the dust beneath. Touch it; the marble eyelids are not wet: If it could weep, it could arise and go. Il vero soffrire, allora, è come una statua – senza parole, senza lacrime – perché se la statua potesse piangere, potrebbe anche alzarsi ed andar via – come l’infelicità conosciuta, rimpianta, scritta. Ma non mi so esprimere bene – però penso tu mi capirai. Fu scritto di Beethoven che soffriva perché voleva soffrire – perché vi era necessario soffrire per poter scrivere le sue sinfonie. Questo è un dolce soffrire. Un soffrire «expressed» – e devi ammettere che la gioia nel rileggere un verso, appena scritto, vale tutto quel divino soffrire. Mi piace la tua poesia «La Vera Donna»: Mi vedo nella tua poesia – e credo finalmente d’essere anch’io una «vera donna». Ti mando due mie poesie. Forse le hai già vedute – non mi ricordo se te le ho già mandate. Tanti saluti cari – e un gran bacio da chi sempre ti capisce e ti vuol bene. Bruna P.S. «Ozarks» è plurale. Si deve usare «degli Ozarks» invece di «dell’Ozarks.» Come sono fastidiose queste donne, sempre pronte a trovare il pelo nell’uovo, specialmente se ti vogliono bene. (? 1957) Caro Nino, Quando sono tornata dalla Nuova Scozia, ho trovato il tuo libro «Whispers of the Wind». Si scusa di non averlo accompagnato durante la sua ultima visita alla figlia, a Detroit, ricevendo anche i rimproveri del marito... poi continua: Ho letto «Whispers of the Wind», e poi riletto «Sussurri del Vento». Certo l’italiano è meglio. La prossima volta che metti una traduzione in stampo, fammela leggere prima: Vi sono degli errori «inexcusable». Per esempio: «a Era» dovrebbe essere «an Era». L’articolo «an» si usa davanti ai vocali – a, e, i, o, u. Nella poesia «Death Penalty» si vede ancora questo errore: «A eye for an eye» invece di «An eye for an eye». La poesia «The Madman» rassomiglia troppo «The Man with the Hoe» di Edwin Markham. … Non so se l’italiano l’ho parola per parola, ma ad ogni modo, questa è la poesia. In Italiano mi piace, ma l’Inglese è meglio lasciato a Markham. «The Factory» mi piace. Io ne ho scritto una simile qualche anni fà intitolato «The Sirens». Te la manderò. «To Defeat Death» – bella. Ma, per chi è scritta? «Mirage or Reality?» espressa proprio i miei sentimenti. Amore, però, non è «feeble insanity» ma – purtroppo – «Santa insanità». Quanto darei poter esser matta ancora una volta prima di morire! Spesso in questa traduzione la scelta delle parole lascia molto d’essere desiderato. Per esempio: la parola «stasis» nella poesia «Prying Around» non mi va. Vi sono troppe parole poco usate nella lingua inglese –– questo è un grave errore nella poesia. Queste sono parole «morte» – e val poco resuscitarle. «In Meditation» mi piace tanto, tanto. Però, invece di scrivere «liege to the Muses and to beautiful things» io avrei scritto: «kin to the Muses, etc.» «Liege» è un’altra parola troppo poco usata, e poi non è bella. «A Profet Without Honor in His Own Country» – storia vecchia, scritta bene. «Goodness» anche mi piace molto. «The Hydrogen Bomb» mi dice che pensi anche tu al presente: Tante volte nel leggere i tuoi scritti penso che non sei di questo mondo [volendo dire: il mondo del 1957] Io dico questo della bombe idrogine: «Why don’t scientist devote their time to investigating ice cream, candy, etc. and all things to eat that are not high in calories?». Vedi, come sono ridicola, e quanto penso a bombe? «To Rise Again» – Caro Nino, la soddisfazione uccide spiritualmente. Io voglio mai essere soddisfatta, e devo lottare con me stessa perché mi lascio prendere della soddisfazione. Dopo la soddisfazione – che cosa c’è? Niente che la noia! (boredom). E la lettera si chiude con il solito bacio, anche se «affettuoso». Che cosa ne pensasse Nino di questa maestrina che pretende di insegnargli l’inglese, quando sarebbe meglio che pensasse al suo italiano, lo saprà soltanto chi metterà le mani sulle lettere che il nostro poeta le inviava, ma possiamo immaginare il cipiglio controllato, verso l’adorata pulzella, specialmente quando si permette osservazioni sulla poetic diction del suo amico traduttore. Ma Bruna, nonostante il suo affetto, continua imperterrita in una lettera seguente dell’11 ottobre 1957: Caro Nino, Mando la tua poesia «The True Woman». Ho notato un errore – «their heart» dev’essere «their hearts». «Their», essendo plurale… non è solamente un cuore fra tanti. Capisci? Non mi piace «in order that». Non è poetico. In fondo, la traduzione è «clumsy» e non mi piace. Non mi posso esprimere – ma voglio dire che queste traduzioni NON valgono la pena. Forse la colpa sarà del traduttore – scrive come scrivevano gli antichi poeti inglesi. Non voglio dire Shelley, Byron, Keats. Voglio dire quelli più antichi ancora – gli poeti Elisabethan – che scrivevano in un inglese antico e non più usato. La poesia bella è una chiara, senza troppi «adjectives» – ma piena di nouns e di verbs. Mi piacciono le tue poesie in Italiano – ma l’inglese non lo posso tollerare. Bruna non fa altro che riconfermare i giudizi di Tusiani sulla traduzione, e quelli di Zappulla sulla tradizione. Ci sembra udire le parole di quest’ultimo: «Bella figura nei confronti della fanciulla! Inoltre non si lascerebbe certo sfuggire l’ultima frase, se questa conoscesse l’italiano come l’inglese.» La lezione di Bruna non si limita al campo poetico, ma invade anche quello della vita. Povero il nostro Caradonna! Quanta confusione si dev’essere addensata sulla sua testa! Infatti Bruna procede: Mio marito non è geloso se ti mando baci nelle lettere. Sa che ti voglio bene, e che è perché sei un poeta. Vi sono tanti voler bene. Può forse essere geloso del mio amore per Beethoven o Dante? Poi, va molto più fondo di questo. Questo mio matrimonio di due anni è un matrimonio ideale – d’avvero. Mio marito ha fiducia in me – perché è sicuro del mio amore ed è contento. Quando si è contenti e fiduciosi – perché la gelosia? Ecco il segreto del matrimonio felice. Il tempo di giocare è passato. Divento vecchia. L’amore non viene più ad ogni «street corner». Il cuore diventa «stubborn». Il mio amore adesso è nella pace, in una vita senza guai, senza agitazione. Lo sai che io ne ho avuti tanti dei guai – adesso abbraccio la pace con gelosia – e non la voglio disturbare. L’amore è una cosa seria adesso. È cambiato in un voler bene che dura per sempre. Questo voler bene dura perché viene di felicità, d’ammirazione. C’è una poesia che dice: «I love you not only for what you are, but for what I am when I’m with you». E chiude, come sempre, rifilandogli un altro bacio. Il 6 febbraio 1958, ecco l’ultima lettera che ci interessa: Caro Nino, Son diversi giorni che ho ricevuto la tua lettera e i tuoi due libri tradotti in tedesco. Questi ancora non ho avuto tempo di leggerli bene – però vedo che son libri che ho già letto. Il tedesco non lo conosco, dunque non ti posso dire nulla della traduzione. E chi erano queste case editrici che volevano pubblicare Caradonna in tedesco? Basterebbe citare la lettera di Herrn Heinz Appenzeller del 29.III.57, proprietario della Energetica-Verlag di Zurigo: Caro mio Dr. Nino Caradonna, tutte le mie speranze di trovare una casa di pubblicazione conosciuta che si interesserebbe della pubblicazione delle Sue poesie [I canti di un raggio di sole] si sono disperse! Ho fatto ancora qualche ricerca. Ma invano! La tentativa sembra impossibile a realizzare. Adesso ho a farle una proposizione: Se Lei potesse pagare la composizione, i costi della stamperia, io sarebbi volentieri pronto di pubblicare il libro nella mia propria casa di pubblicazione («Energetica – Verlag, Zürich») prendendo sopra di me la propaganda, lo smercio e la corrispondenza coi giornali per ottenere delle critiche. Aggiunge poi il preventivo della stamperia: 200 esemplari | Fr. 1274.- | ($ 374.70) | 500 | 1462.- | ( 430.- ) | 1000 | 1932.- | ( 568.20) |
il cambio del dollaro a Zurigo equivale a 4.30 franchi svizzeri.
Per quanto Appenzeller tenti di aiutarlo, non può far stampare il libro se non riceve i soldi che lui non potrebbe anticipare... a breve sua moglie partorirà il primo figlio... ma aggiunge: Se forse non vuole confidarmi tanto danaro prima di vedere gli esemplari stampati può anche mandare la moneta alla disposizione della stamperia o di me ad una grande banca svizzera (per esempio alla Schweizerische Kreditanstalt, Zürich). La somma sarebbe data dopo l’esecuzione della pubblicazione. Sperando adesso ché i mezzi necessari non sono oltre le Sue sforze monetarie La abbraccio con saluti fraterni, Il Suo amico Pur non riuscendo a quel tempo l’impresa svizzera, nel 1974 apparirà in spagnolo come Los Cantos de un Rayo de Sol, pubblicato dalla solita Fairmount Publishing Co. (MO). Appenzeller, però, nel ’62 gli tradurrà e pubblicherà Fiori di fiori (Blüten von Blüten), proprio l’anno dopo all’uscita di Schwingungen (Risonanze), a Reggio Calabria per i tipi di La Procellaria. Ma il problema di vivere in America costringe sempre alla traduzione e quindi il costo di pubblicazione aumenta o ci si deve accontentare e correre il rischio di essere criticati non da illustri colleghi come Tusiani, ma anche da una Bruna qualsiasi. L’ultima traccia di questo tipo di difficoltà la troviamo in una lettera di Michele Ricciardelli (5 marzo 1970), professore alla SUNY at Buffalo: Lei mi parlava che nell’ultimo Suo lavoro edito ci sono diversi rifusi, e mi chiede se io abbia qualche amico letterato volenteroso per una nuova silloge di versi. I miei amici letterati fanno questo lavoro per soldi, comunque potrei tentare con qualche studente mio. Non posso prometterle una traduzione da poeta, ma si potrebbe tentare e vediamo come la cosa riesce. Da parte mia farò tutto il possibile. Quale sono le poesie? Quante? Mi dia queste informazioni, e come ho detto, io farò di tutto il mio meglio. Dalle notizie a nostra disposizione sembra che non se ne sia fatto nulla. Ma se quell’anno non porta frutti di traduzione, la fortuna gli arride in campo accademico. I vincoli con il Presidente dell’Accademia di Paestum (Mercato San Severino - SA), Carmine Manzi, si rinsaldano vieppiù. Il 13 ottobre 1970 Manzi lo ringrazia della recensione a un suo libro stesa da Kathryn Cross sul Pungolo Verde, gli conferma la sua ammirazione e aggiunge: Gradirò molto la nomina che mi prometti a SOCIO ONORARIO della Columbian: mi giungerà prova e conferma della nostra antica amicizia. Il 29 novembre 1970, ne abbiamo poi la conferma: Illustre e mio carissimo AMICO, ho ricevuto tramite l’amico Massarelli il Diploma di Accademico della COLUMBIAN ACADEMY e te ne ringrazio vivamente, grato per la tua stima e per il tuo buon ricordo, che contraccambio di tutto cuore. Ti invio, con plichi a parte raccomandati, La Grande Medaglia Aurea della nostra Accademia ed il Diploma di conferimento – fuori concorso – al nostro XII Premio Paestum. Molto lieto di questo scambio reciproco – e con l’augurio di una sempre più attiva e fraterna collaborazione, ti ringrazio, ti abbraccio e ti invio AUGURI di Buone Feste In quell’anno la fama di Caradonna viene continuamente riconosciuta anche in America, tanto che Costa gli scrive il primo settembre: Quindi dopo tanto tempo sono stato ieri nella libreria di New York, e fra tante altre cose di cui avevo bisogno di prendere appunti non ho mancato di leggere le copie arretrate della Parola del Popolo. Qui sono rimasto profondamente tocco di ciò che Vivaldo Pili e Giorgio Segato hanno così meravigliosamente detto di te. L’orgoglio sentito da quelli per te è stato il mio stesso orgoglio. Bravo Nino! Cosa potrei aggiungere io? Mi fermo al «bravo» e dico tutto! Avrai saputo che a New York hanno fondato il «Cenacolo dei poeti Italoamericani.» È una lodevole iniziativa che ho vagheggiata per anni e per cui ho fatto una campagna su Italamerican e su l’«Hudson Dispatch», quest’ultimo un quotidiano che si pubblica nello Stato del New Jersey. Io sono a contatto con il segretariato, ma guardo i passi... perché sembra che quel Cenacolo sia nato con qualche difetto... Il Professor Pucelli non simpatizza col Cenacolo. È pieno di riserbo... ma il suo riserbo ha un certo strano senso... Nessuno è professore fra noi... mentre lui... Ultimamente che sono stato a trovarlo mi ha un po’ sconcertato. Sembra quasi che Costa chieda l’intervento del professor Caradonna per neutralizzare le stranezze del professor Pucelli. Ma questa pista non è stata battuta. Come si è visto fino ad ora, nonostante una qualche critica avversa, gli articoli lusinghieri e le recensioni e i premi e i riconoscimenti sono caduti sulla vena caradonniana a decine. Ma per attendere la vera fama c’è voluto qualche tempo ancora. È solo nel 1975 che, finalmente, esce per la Fairmount Publishers (St. Louis, MO) la prima monografia – un trattato critico bio-bibliografico dal titolo: La catarsi nella psicologia poetica di Nino Caradonna. Finalmente gli accademici del privato e del pubblico si uniscono in uno sforzo comune per una politica culturale che ha sempre caratterizzato e continua a caratterizzare la genia italiana o italoequalcosa: questa credo sia la nostra matrice e non il «menefreghismo»11, come afferma Pasquale Verdicchio, perché nella poesia, nello stile, negli scambi e nei titoli, anche se solo accademici, siamo stati e saremo sempre e per sempre tutti uniti. Dopo avere, in qualche modo, chiuso con Caradonna vorrei fare un minimo richiamo a Zappulla che con questi era stato piuttosto severo non tanto nello scoprire i suoi imbrogli, quanto nel giudicare «antiquata» la sua poesia. Ma chi la fa, l’aspetti. Nel 1960 (12 giugno) Zappulla aveva contattato Glauco Cambon, insigne italianista e comparativista che allora insegnava ad Ann Arbor all’Università del Michigan, per fargli i suoi complimenti al riguardo di diversi suoi articoli apparsi in varie riviste americane e italiane. Zappulla aveva gradito in modo particolare un commento di Cambon a «Vento a Tindari» di Quasimodo, apparso su Italian Quarterly, in polemica con l’interpretazione di Kay, della cui antologia si era occupato lui stesso su Italica, «notandone alcuni errori e deficienze». Sembra che da questo contatto sia proseguita una discussione non solo sulla poesia in genere, ma sulla poesia dello stesso Zappulla. Che i giudizi di Cambon non siano estremamente graditi tanto da spingere Zap all’autodifesa, lo vediamo da due lettere di un paio di anni seguenti: (14 luglio 1962) Egregio Prof. Cambon: Devo correggere una sua asserzione fatta nella sua cartolina del 20 giugno, di cui la ringrazio. Non è affatto vero che io sia antimodernista. Non ho mai amato gli assolutismi, le posizioni intransigenti, e non ne ho mai prese. Molta poesia moderna mi piace, mi seduce, ha il mio consenso e la mia ammirazione. La poesia moderna che non mi piace è quella senza calore, quella che non commuove e non seduce e quella che riesce incomprensibile. Ma non è esatto asserire che io sono avverso alla poesia moderna. Tante cose di Montale, di Quasimodo e di altri mi piacciono moltissimo e penso che siano poesia genuina, alta, eletta. Ma non amo la poesia prosaica e disarmonica (come ho detto in un mio recente articolo apparso su Cynthia). Anche quando una poesia mi seduce molto, preferirei non avesse certe oscurità. Lei stesso ha dovuto faticare non poco parlando di «Vento a Tindari» per stabilire se c’era un riferimento a una donna o se invece il poeta si riferiva a Tindari o a Milano. Non sarebbe stato preferibile evitare l’ambiguità? Lo stesso Q. (alla Casa Italiana) accennò ai dibattiti dei critici a tale proposito e dichiarò che si era riferito a una donna. Sono tanto antimodernista che ho lavorato molto nel dare ad alcune delle mie poesie una veste diversa, moderna, appunto: mutandone forme e ritmi ed eliminando il ritmo troppo cantabile e quasi tutte le rime. Se poi non sono riuscito a far versi ermetici non è perché non ne sia stato capace, ma perché il modernismo che approvo non è quello. Non è questione di fedeltà ai propri principi. Non saprei che farmene di una fedeltà a un tradizionalismo scipito, prosastico, orecchiabile. Ma negar valore ad una poesia pura, sentita, nobile, soltanto perché non è ermetica non mi pare né saggio né giusto. E non credo che abbiano avuto torto tutti coloro che hanno lodato, poniamo, la poesia di Valeri e di Vïllaroel: due poeti fedeli alla tradizione, ma pure modernissimi nello spirito e nei temi trattati. Ella trova che i miei versi «sono più decorosi della maggior parte di quelli che si pubblicano qui in italiano.» Grazie; non mi pare che questo basti a definire i pregi di una poesia che, anche nel ’56, trattava temi alti e nuovi e raggiungeva le altezze della lirica. Parole di uno che se ne intendeva: Alfredo Galletti. La maggior parte dei poeti cui lei si riferisce sono individui di nessuna cultura, spesso sgrammaticati, incapaci perfino di scrivere una lettera; operai incolti, non giornalisti, non scrittori, non critici. Non ho nulla a che vedere con costoro, e non ho fatto poesia del genere che essi scrivono, anche se «più decorosa». Possibile che una permanenza all’estero debba per forza far credere a delle cose assurde, all’impossibilità di creare poesia vera, moderna, nobile? No. Tutto dipende da un po’ di buona volontà, dal leggere senza pregiudizi, dal dimenticare che per forza di cose uno è vissuto in un ambiente come il nostro. Ho riletto in questi giorni il lungo capitolo del Thovez intitolato «Thovez il precursore» nel volume il viandante e la sua orma. E ancora una volta mi sono convinto che spesso coloro i quali si occupano di letteratura e soprattutto di poesia, si lasciano guidare da pregiudizi e da antipatie che nulla hanno a che vedere con l’opera giudicata. Spero che questo non sia il suo caso. Se precedentemente lo scontro era tra acculturati e ignoranti, tra chi sapeva e non sapeva scrivere «poesia» o meglio, tra chi conosceva o non conosceva le regole della lingua e della metrica in particolare, ora ci troviamo di fronte ad un dibattito tra antichi e moderni. Povero Zappulla nelle mani di Glauco, da cui pretendeva moderazione e imparzialità, lui che amava buttarsi a capofitto con passione a favore del moderno, contro le cose linguistiche create morte. La poesia per Cambon non era più un problema di purezza, di sublime, di equilibrio e di decoro, era un fatto di intelligenza e sensibilità, o meglio di vita o di morte. Note |