Il lavoro di Giampaolo Giampaoli riesce, nella sua snellezza ed efficacia, a gettar luce su un aspetto dell’emigrazione italiana spesso dimenticato: quello dell’emigrazione ambulante, se si escludono alcune eccezioni come le ricerche di Adriana Dadà (per esempio, Le «Barsane». Venditrici ambulanti dalla Toscana al Nord Italia, Firenze, Morgana, 2008). Le cinque brevi sezioni del testo sono piacevoli e concise, con delle note e un apparato bibliografico essenziali che ne valorizzano ulteriormente la leggibilità. L’appendice fotografica ha in parte un obiettivo analogo, sebbene svolga anche altre funzioni perché costituisce una parte integrante della monografia, nonché un valido strumento documentario.
L’autore si concentra sulla prima metà del Novecento, facendo frequenti richiami alle origini più antiche dei mestieri itineranti, presenta esempi di vita, successi e rimpatri di alcuni commercianti ambulanti toscani, soprattutto venditori di libri e di statuette (o figurine). La ricerca, nonostante il titolo più ampio e generico, è circoscritta a livello geografico ad alcuni centri della Lunigiana – in particolare Bagnone – e ai territori limitrofi. Questo comporta spesso la presenza di dati quantitativi poco significativi, ma, come afferma lo stesso Giampaoli parlando della presenza ambulante nei paesi stranieri, la limitatezza del campione assume significato proprio perché a questo corrisponde un’uguale limitatezza dell’area geografica di riferimento (p. 14). A livello archivistico lo storico si è concentrato sugli Archivi Comunali di Bagnone e di Mulazzo, sull’Archivio Paolo Cresci di Lucca e sulle fonti del Museo dell’Emigrazione della Gente di Toscana, che conserva una notevole documentazione iconografica.
Il libro inizia con un inquadramento del fenomeno, partendo da quando i toscani si recavano in alcune zone della Pianura Padana, soprattutto nell’area bresciana, a lavorare come braccianti. La crisi agricola di metà Ottocento, però, aveva ristretto le opportunità di impiego per gli emigranti che avevano giocoforza dovuto trovare altre modalità di sopravvivenza all’interno dei movimenti stagionali, trasformando quella che era ormai diventata una consuetudine migratoria interna alla Penisola. E così da braccianti – conoscitori delle abitudini e dei bisogni della popolazione del luogo – si trasformarono in venditori ambulanti, figure utilissime in contesti rurali, nei quali era complicato spostarsi e raggiungere i centri dove venivano allestiti mercati. Favoriti da questa situazione e dal fatto che i distributori facevano loro credito alla partenza, dando così la possibilità di ammortizzare le spese dell’attività, quella dei commercianti girovaghi toscani nella Pianura Padana divenne una presenza costante e longeva fino a metà Novecento.
Nella monografia viene dato risalto all’importanza dell’organizzazione familiare e delle catene migratorie ai fini del successo delle attività intraprese. L’esplicitazione di questo elemento appare fondamentale, essendo tale paradigma uno dei più utilizzati nella lettura delle migrazioni passate e di quelle odierne. Tra i commercianti ambulanti di solito si sceglieva come modalità migratoria quella nella quale si poteva contare su un nucleo familiare o di conoscenze attivo sia sul paese di partenza sia in quello di arrivo e che si concentrava esclusivamente su una particolare zona di destinazione.
Andando avanti nella lettura l’autore ci conduce alla scoperta, più nel profondo, di alcuni singoli casi. Giampaoli parte dai librai, originari dei comuni di Pontremoli e Mulazzo, che definisce «inconsapevoli promotori della lettura» (p. 23). Essi erano, infatti, in gran parte analfabeti e non intendevano certo partecipare alla diffusione della lettura e della cultura editoriale in genere. Ma, a dispetto di ciò, alcuni di loro riuscirono a mettere in piedi dei veri e propri imperi, nazionali e non, costruiti proprio sulla vendita dei libri. Molti restarono in Italia, percorrendo le solite strade che dalla Toscana portavano, più in generale, nel Settentrione; altri approdarono invece all’estero. Se infatti la famiglia Fogola aprì una grande libreria nel centro di Torino e la famiglia Tarantola librerie e tipografie a Monza, Piacenza e Modena, i Maucci, partendo dall’Argentina, diventarono editori di riferimento nel mondo ispanofono, aprendo sedi a Cuba, in Messico, Spagna e Venezuela.
Allo stesso modo i figurinai raggiunsero le mete più svariate, da quelle nazionali all’Europa, all’America, all’Australia e persino all’Asia con Singapore. Anche per quanto riguarda i venditori di statuette in gesso, l’autore presenta la genesi di questo movimento, facendo notare le continuità negli spostamenti. Infatti i figurinai, già presenti in età moderna, erano gli eredi degli stucchini che lavoravano nei monasteri nel Trecento e i loro lavori erano già apprezzati in Italia e all’estero. La ricerca sottolinea come la carriera di figurinaio fosse intrapresa sin dalla tenerissima età ed evidenzia quanto proprio i più piccoli fossero particolarmente sfruttati oltre che poco graditi dalle popolazioni ospitanti (p. 45).
L’ultima sezione è un racconto tracciato interamente sulla base di materiale iconografico, costituito sia da fotografie, sia da illustrazioni apparse sulla stampa nazionale e internazionale. La fotografia è una fonte molto valorizzata nei migration studies anche italiani, e non solo per quanto riguarda gli scatti privati e familiari. Il lavoro di Paola Corti Emigranti e immigrati nelle rappresentazioni di fotografi e fotogiornalisti (Foligno, Editoriale Umbra, 2010) va infatti oltre, aprendosi alla produzione fotogiornalistica per sfruttare a livello metodologico il punto di vista dei fotografi, senza dubbio diverso da quello degli emigranti, nella maggior parte dei casi desiderosi di lanciare un messaggio a coloro i quali non erano partiti. Quest’ultima funzione rimane, però, quella più sfruttata in ricerche che si concentrano sull’analisi dei rapporti sociali, familiari ed economici legati all’autorappresentazione dei migranti. Tale approccio caratterizza anche studi che, al contrario del lavoro di Corti, non si occupano nello specifico di rapporti tra migrazioni e storiografia, ma utilizzano il materiale fotografico in modo complementare alle altre fonti.
In questo caso grazie alle fotografie Giampaoli estrapola interessanti notizie sulla vita dei figurinai e sulle loro condizioni di lavoro. Molto spesso i lavoratori si facevano ritrarre a fianco delle loro opere, ormai non solo statuette religiose ma anche raffigurazioni di personaggi storici e opere di decorazione, o all’interno dei laboratori. Il tutto serviva a far conoscere a familiari e conoscenti lontani il successo economico raggiunto grazie all’emigrazione e al lavoro. A volte capitava anche che le fotografie rappresentassero una testimonianza dell’integrazione nella società di arrivo, come nel caso dei fratelli Mattei che in Australia si fecero fotografare nel loro laboratorio con sul tavolo delle bottiglie di birra, tipica bevanda anglosassone, al posto del più tradizionale e «italiano» vino.
Sara Rossetti