Nel 1982 circostanze della vita portarono Leonilde Frieri Ruberto a trascorrere alcune settimane nella casa della figlia a Long Island, in attesa che il marito tornasse da un viaggio in Italia, viaggio al quale lei non aveva voluto partecipare. Leonilde, nata a Cairano in provincia di Avellino nel 1913 ed emigrata negli Stati Uniti nel 1954, è una donna che ha ricevuto un’educazione scolastica molto limitata e che non ha alcuna familiarità con la scrittura. Eppure decide di trascorrere quelle due settimane scrivendo la storia della propria vita, usando la lingua che le è più familiare, un misto di italiano stentato e dialetto di Cairano. Anni più tardi il quaderno arancione su cui la storia era stata scritta viene ritrovato dalla nipote, Laura Ruberto, che decide di tradurre il testo in inglese in modo tale che la famiglia estesa possa leggerlo. A distanza di anni questo diventa una pubblicazione per il grande pubblico.
Such is Lifedi Leonilde Frieri Ruberto è una delle pochissime autobiografie pubblicata da una donna italoamericana di prima generazione, e per questo motivo è un libro sicuramente di grande valore. Il testo viene presentato in questo volume in traduzione prima e in originale poi (la trascrizione del testo italiano è di Raffaele G. Ruberto, figlio dell’autrice e padre della traduttrice), con l’aggiunta, all’inizio del testo italiano, della fotografia di una pagina del manoscritto che permette ai lettori di sbirciare, seppure molto brevemente, sul modo in cui la curatrice Laura Ruberto ha concepito la propria funzione di editor. Il testo è preceduto da una prefazione della stessa Ruberto e da un’introduzione di Ilaria Serra.
Such is Lifeè una storia scritta, costruita e presentata come un racconto orale. La collocazione che l’autrice attribuisce al testo, come osserva Serra nella sua bella introduzione, è innanzitutto spaziale e poi temporale, quasi che ancorare questa storia ai luoghi possa in qualche modo arginare il senso di spaesamento che la migrazione ha prodotto nell’autrice e che, dal testo si evince, è sempre rimasto con lei. La storia è narrata più o meno in ordine cronologico e racconta la vita della protagonista dalla sua nascita nel paesino irpino di Cairano fino al momento della scrittura che per l’autrice, che ha settanta anni, ha la funzione di rafforzare il legame tra la terra d’origine e le generazioni successive alla sua. Il testo ha il grande pregio di rappresentare con la vividezza del racconto orale la materialità della vita contadina del Sud Italia, con le sue privazioni e le sue regole ferree intorno alle quali si articolavano tanto i rapporti sociali e familiari che i rapporti tra i generi. Ma il racconto di Leonilde Frieri Ruberto allo stesso tempo presenta anche descrizioni di come a quelle regole si contravvenisse e di come i giovani cercassero, seppure sempre entro certi limiti, di contrastare l’autorità dei genitori e di creare per sé degli spazi che non fossero incentrati sul lavoro, elemento fondamentale di questa narrazione. Memorabile la descrizione delle atmosfere di divertimento e complicità che Leonilde e suo marito avevano creato nella loro casa, dove gli amici arrivavano la sera per divertirsi con giochi di carte e un po’ di alcol:
after we did what was necessary in church, we would have a good time, we each brought baskets with things to eat it was like a little picnic, we had a good time being all together […] I remember that next to us lived two brothers Nicola, and Pasquale […] they would come with everyone else to our house to play cards, sometimes these two friends got a good price on vermouth from some of their relatives and they would bring it and everyone would put in a little for it (pp. 21-22).
La maggior parte del testo si svolge in Italia, dove l’autrice trascorre più di quarant’anni, e racconta vite di cui raramente abbiamo ricevuto testimonianza perché sono le vite di persone ordinarie. Queste persone, però, in casi come questo utilizzano l’eccezionalità della loro esperienza (quella dell’emigrazione) per narrare non soltanto la loro vita americana una volta arrivati, ma anche quella italiana prima di partire, creando allo stesso tempo un senso di continuità e di discontinuità tra le due (lo stesso accade nell’autobiografia di Rosa Cassettari as told to Marie Hall Ets, Rosa: Life of an Italian Immigrant). Se il testo nelle ultime pagine diventa a tratti nostalgico – quando l’autrice ricorda la purezza dell’aria della sua collina irpina, le albe, i tramonti, le rondini, e contrappone tutto questo alla cronica assenza di cieli azzurri negli Stati Uniti – nel suo insieme esso presenta un racconto asciutto, in cui non c’è alcuna glorificazione del paese di accoglienza. L’abbondanza che qui vi si trova, e a cui pur si fa brevemente riferimento, viene piuttosto presentata come ciò a cui è stato necessario sacrificare tanto il proprio senso di appartenenza quanto gli affetti familiari.
Come è stato più volte notato anche per Rosa, testi come Such is Lifepresentano una differenza sostanziale con la tradizionale autobiografia di successo degli immigrati italiani negli Stati Uniti. In questo senso, il libro può essere una lettura interessante nei corsi di letteratura e cultura italoamericana, ma anche di letteratura etnoamericana, di autobiografia e memoir, di scrittura autonarrativa di donne e di studi di genere (specialmente in rapporto alle relazioni di potere che un’autobiografia collaborativa mette in atto).
La prefazione e l’introduzione al testo costruiscono un apparato teorico-critico molto utile per studenti e studiosi. Serra, già autrice di The Value of Worthless Lives: Writing Italian American Immigrant Autobiographies(2007), apre l’introduzione inserendo questo libro nel contesto delle autobiografie degli emigrati italiani – e in particolare di quelle scritte dalle donne – facendo però coincidere il genere del «memoir» indicato nel sottotitolo con quello dell’«autobiografia», senza cioè problematizzare la differenza tra questi due generi letterari. L’assoluta eccezionalità di questo testo è debitamente sottolineata e accuratamente esaminata da Serra, che prosegue con l’analisi testuale e stilistica dell’opera, soffermandosi tanto sulla funzione che la scrittura di questo testo assolve per l’autrice quanto su ciò che il testo offre a lettori e lettrici.
Nella sua prefazione Laura Ruberto va ben oltre il fornire le informazioni sulla genesi del testo, ma assolve a un compito di fondamentale importanza per il genere letterario di fronte al quale ci troviamo. Se è vero che in questa autobiografia – a differenza di autobiografie as told to– la figura della narratrice e quella dell’autrice coincidono, è tuttavia anche vero che questo testo, al pari delle autobiografie as told to, appartiene al genere delle autobiografie «collaborative», nelle quali la figura dell’editor non può essere considerata trasparente. Ed è proprio in linea con questo principio che Laura Ruberto spiega ai lettori il modo in cui ha lavorato sul testo originale, e per quale motivo e con quale scopo ha rispettato o alterato le scelte operate dall’autrice.
Anche dopo la pubblicazione, il testo mantiene quel carattere di progetto familiare che aveva animato tanto la sua composizione, quanto la sua seguente divulgazione. Allo stesso tempo, però, l’atto di rendere questo testo pubblico conferisce autorità sia al testo che all’autrice. E soprattutto conferisce autorità alle storie di donne e uomini comuni, storie che rarissimamente ci raggiungono direttamente dalla voce delle persone emigrate, offrendo un prezioso contributo alla ricostruzione di una pagina della storia d’Italia – e degli Stati Uniti – di cui ancora sappiamo così poco.
Caterina Romeo