Negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria fioritura di studi sull’emigrazione italiana, che finalmente hanno riguardato anche l’ondata migratoria prodottasi tra il 1946 e la metà degli anni settanta. Agli oltre 7 milioni di espatri avvenuti in questo trentennio sono state dedicate sia sintesi generali (la più recente è quella di Andreina de Clementi, Il prezzo della ricostruzione, Roma-Bari, Laterza, 2010), sia ricerche circoscritte ai flussi che hanno interessato determinate aree di partenza (comuni, province o regioni) e di arrivo (singoli paesi o, di nuovo, ambiti geografici più ristretti).
A favorire lo sviluppo di questo secondo filone sono state in parte le tendenze prevalenti nella storiografia sulle migrazioni internazionali, che dagli anni ottanta del Novecento, muovendo dall’individuazione della catena migratoria come meccanismo capace di spiegare il funzionamento dei flussi meglio del vecchio modello push-pull, ha progressivamente lasciato la scala di analisi «macro», nazionale, per privilegiare il livello «micro», locale o regionale. Tuttavia, in misura assai maggiore, ha contato il protagonismo delle amministrazioni locali italiane: comuni, province e specialmente regioni hanno preso a finanziare studi sui propri concittadini espatriati, nel quadro di un più ampio impegno a favore del mondo dell’emigrazione, che dagli anni settanta è servito a compensare la latitanza dello Stato, venendo incontro a esigenze a lungo disattese degli emigrati e dei loro discendenti (oltre che a quelle degli stessi studiosi, costretti altrimenti a fare i conti con la penuria di risorse che affligge la ricerca in Italia).
A prima vista rientra pienamente in questa tipologia il bel lavoro che Antonio Canovi ha dedicato all’emigrazione in Argentina da una manciata di comuni della provincia di Reggio Emilia – Boretto, Brescello, Castelnovo di Sotto, Gattatico, Gualtieri, Guastalla e Poviglio – che cinque delle medesime amministrazioni comunali, assieme alla provincia e alla regione Emilia Romagna, hanno promosso, e che è stato pubblicato, in un’edizione al solito molto ben curata, per i tipi di Diabasis, arrivando in un solo anno alla terza ristampa, a riprova dell’interesse che questi studi suscitano.
E, nondimeno, quella che Canovi ci presenta è più di una storia d’emigrazione locale (che, tra l’altro, i piccoli numeri del flusso emiliano in un paese dove sono approdati circa tre milioni di italiani renderebbero piuttosto marginale). Costruito a partire da decine e decine di testimonianze orali raccolte in Argentina e in Italia, attorno alle quali ruota la narrazione degli otto capitoli in cui è suddiviso, il libro è un originalissimo esempio di «ricerca-azione», secondo la definizione proposta dallo stesso autore, in cui lo storico, in viaggio da un punto all’altro del paese sudamericano, si ritaglia un ruolo di stimolo e riattivazione delle memorie migratorie, individuali e familiari, e attraverso le storie di vita ricostruisce pezzi importanti di storia economica, sociale e politica argentina, ma anche italiana, dagli anni ottanta dell’Ottocento a oggi.
Le interviste, a emiliani emigrati dopo la Seconda guerra mondiale, a discendenti di seconda, terza e persino quarta generazione, nonché a loro familiari e parenti, ci offrono diverse conferme al riguardo, rispetto, per esempio, allo svolgimento del processo di colonizzazione della pampa húmeda negli anni della cosiddetta «alluvione immigratoria», i quattro decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento; e al successivo trasferimento di tanti immigrati dal «campo» alla città; o ancora al fatto che l’ultimo ciclo migratorio, posteriore al secondo conflitto mondiale, si riallacciò al precedente: molti emiliani sfruttarono dopo il 1945 catene e reti migratorie con parenti e compaesani espatriati negli anni venti, spesso per sfuggire alla dittatura fascista. Se altrettanto atteso, trattandosi di emigrazione dall’Emilia, è il ricorrere nei racconti di riferimenti all’impegno politico, declinato in Italia in senso socialista e, appunto, antifascista, e continuato spesso in Argentina, nei partiti e nei sindacati ma anche nel sociale, dalle testimonianze emergono altresì spunti di notevole interesse su questioni meno approfondite dalla storiografia, come la mobilità interna al paese sudamericano della prima generazione di immigrati; o il riuscito trapianto oltreoceano di saperi professionali. Basti qui citare il caso del «Reggianito», la versione platense del Parmigiano Reggiano, uno dei prodotti simbolo della cucina emiliana, e italiana, nel mondo.
Nel riscontrare più in generale la permanenza tra gli emigrati e i loro discendenti di tratti culturali del luogo d’origine, a cominciare dal dialetto – un mantenimento che molte ricerche promosse da enti locali tendono indebitamente a enfatizzare, per puntellare nelle patrie piccole identità che si vogliono minacciate dall’immigrazione di massa – Canovi evita le trappole di un concetto scivoloso come quello di «identità» e si affida all’evidenza e alle sfumature delle sue fonti orali per mostrare quanto i sentimenti di appartenenza delle persone siano molteplici e in continua evoluzione. L’autore rivela anche a quanto poco servano le stesse generalizzazioni e gli schemi (primo fra tutti quello che li collega alla generazione migratoria) con cui gli studiosi cercano di imbrigliare tali sentimenti: l’Argentina è notoriamente il paese in cui l’assimilazione degli italiani è avvenuta in modo più rapido e felice, ma ciò non toglie che in ogni epoca pochi immigrati abbiano voluto rinunciare alla cittadinanza italiana e che, per tanti, legami anche forti con il paese di origine, proprio o degli avi, resistano tutt’oggi, a cinquant’anni dagli ultimi arrivi di emiliani oltreoceano, per ragioni varie ma quasi mai strumentali, diversamente da quanto in genere si ritiene in Italia.
A dispetto di uno stile elegante e accattivante, non risulta sempre agevole seguire Canovi nel suo periplo geostorico, per il fitto rincorrersi nelle pagine del libro di nomi di persone e di luoghi, difficili questi da fissare per chi non abbia familiarità con la geografia dell’Argentina (in tal senso avrebbe giovato l’inclusione nel volume di qualche carta del paese sudamericano). Inoltre qua e là, a disorientare il lettore, intervengono anche piccoli equivoci linguistici, causati dalla non perfetta conoscenza dello spagnolo da parte dell’autore, o viceversa, dalla scarsa padronanza dell’italiano da parte dei suoi testimoni, ma la ricchezza di queste storie di vita, al contempo argentine, emiliane e italiane, giustifica decisamente lo sforzo.
Federica Bertagna