In tempi recenti, lo studio delle migrazioni ha conosciuto una fortuna inedita, diretta conseguenza della centralità del tema in ambito politico e nel dibattito pubblico contemporaneo. Le analisi delle migrazioni e del loro impatto sulle società si sono ritagliate uno spazio importante in ogni settore disciplinare, dalle scienze sociali a quelle umanistiche. Un numero crescente di lavori scientifici si è concentrato sempre più sui migranti come attori transnazionali, nei contesti della partecipazione politica, della definizione della cittadinanza e delle identità, della elaborazione culturale, dei consumi e dell’imprenditoria, delle trasformazioni demografiche e sociali, delle relazioni internazionali.
In tale quadro, i volumi di Michele Colucci e Andreina De Clementi hanno il merito di riportare in primo piano alcuni aspetti spesso rimasti sullo sfondo nei contributi più recenti: coloro che si spostano, nella grande maggioranza dei casi, sono in primo luogo lavoratori – termine nobile che, chi sa perché, è impiegato sempre più raramente per connotare i migranti; i lavoratori, poi, si muovono all’interno di un quadro normativo, che viene definito dai governi per mezzo di accordi bilaterali, e sulla base di ragioni e interessi di ordine politico ed economico, nel tentativo di creare una politica migratoria e una governance della mobilità internazionale.
I due libri presentano numerose analogie di contenuto. Entrambi, infatti, prendono in considerazione un aspetto dell’emigrazione italiana fin qui relativamente poco studiato: l’esodo del secondo dopoguerra e il ruolo dei governi nel promuovere una politica di emigrazione «assistita», vale a dire pianificata e gestita dalle istituzioni, per mezzo dei ministeri del Lavoro e degli Esteri. La fine della guerra aveva ripristinato le condizioni per una ripresa dei flussi in uscita dall’Italia, in prevalenza verso destinazioni europee, ma in misura crescente anche verso mete transoceaniche, come Australia, Canada, e alcuni paesi dell’America Latina. I governi italiani cercarono allora di far fruttare l’esubero di manodopera presente nel paese, negoziandone con i governi stranieri l’immissione sul mercato internazionale del lavoro, in cambio di materie prime e fonti di energia necessarie alla ricostruzione postbellica.
Entrambi, inoltre, dipingono quel percorso migratorio – l’espatrio alla ricerca di un lavoro nella speranza di una mobilità sociale per sé e la propria famiglia – fondamentalmente come sofferenza estrema, esperienza di stenti, abusi, precarietà, discriminazioni a sfondo xenofobo e razzista, evidenziando al contempo tutte le carenze delle istituzioni italiane, quando erano chiamate a lenire tali sofferenze e intervenire a protezione dei propri lavoratori e cittadini nei diversi contesti di emigrazione. Da entrambi i volumi, emerge dunque il ritratto di una classe dirigente italiana pronta a cogliere l’occasione di monetizzare l’esportazione di manodopera per agevolare la ricostruzione postbellica, ma priva di credito agli occhi degli interlocutori esteri e incoerente nel perseguire i propri obiettivi nello scenario internazionale. Una debolezza che era diretta conseguenza del fatto che l’Italia era un paese sconfitto, che ancora scontava lo stigma internazionale per il ventennio fascista, ma era dovuta anche alla scelta di avere promosso la manodopera italiana, in fase negoziale, come forza lavoro a basso costo e a bassa intensità politico-vertenziale.
Detto delle analogie nei contenuti, il valore scientifico dei due lavori è, a mio parere, assai differente.
Lavoro in movimento si concentra sull’analisi dell’emigrazione verso la sola Europa. Colucci esordisce con una serie di dati relativi agli espatri verso altri stati del continente, fornendo il dettaglio delle destinazioni, delle provenienze regionali, e l’incidenza dell’emigrazione assistita sul totale, con una serie di tabelle che rendono immediata la lettura del fenomeno nei suoi aspetti quantitativi. Prima di passare ai contenuti veri e propri della ricerca archivistica, l’autore inquadra il lavoro in una ricca cornice teorica e storiografica di riferimento, in modo che il lettore possa comprendere entro quali coordinate scientifiche e interpretative si pone l’opera. Sotto questo aspetto, particolarmente apprezzabile appare la scelta di aprirsi ai contributi delle scienze sociali e di non guardare al caso italiano come fenomeno a sé stante, bensì parte del sistema migratorio europeo e internazionale. Il volume prosegue poi coerentemente con l’esposizione delle diverse posizioni che portarono alla definizione delle politiche migratorie del secondo dopoguerra, per passare subito dopo a una descrizione della macchina istituzionale creata per implementare tali politiche. Colucci evidenzia come la scelta operata dai governi italiani di distribuire su più soggetti dell’apparato statale competenze ed elaborazione delle politiche di emigrazione fu alla base di una serie di conseguenze perlopiù infelici. In primo luogo, si disperse un patrimonio di esperienze sull’emigrazione, che era stato coltivato durante l’età liberale e si era concentrato principalmente nelle strutture del Ministero degli Esteri. Inoltre, la sovrapposizione di competenze portava necessariamente con sé anche la formazione di strutture di potere concorrenti, in competizione tra loro per il controllo e la definizione delle politiche migratorie. Il mancato accentramento istituzionale finì, dunque, per generare scarsa coerenza nella gestione dell’emigrazione assistita e per indebolire il peso negoziale dello stato italiano nei suoi rapporti con i rappresentanti dei paesi di destinazione. Prima di concludere con una valutazione sulla politica dell’emigrazione dello stato italiano di questo periodo, il volume ospita un’analisi puntuale degli accordi con i sei principali paesi di emigrazione europea. L’autore intreccia qui fonti istituzionali – italiane, ma anche estere, seppure in proporzione assai minore – con testimonianze private di lavoratori emigrati, dando così conto dei risvolti sia politici sia sociali della «stagione degli accordi». Il giudizio finale di Colucci non può che essere negativo. Da un lato, viene constatato il fallimento del tentativo dello stato italiano di gestire e indirizzare l’emigrazione, perché furono basse le adesioni ai programmi di reclutamento di lavoratori all’interno di accordi bilaterali e alti i coefficienti di rientri. Dall’altro, viene evidenziata la riproposizione di una ricetta antica – utilizzare l’emigrazione come strumento di politica estera e per risolvere problemi sociali ed economici profondi – dimostratasi già poco efficace in passato, senza tenere conto dell’impatto portato al mercato del lavoro continentale dal processo di integrazione europea.
Pubblicato due anni più tardi, Il prezzo della ricostruzione riprende molte tematiche del volume di Colucci, allargando però l’analisi anche a paesi di «nuova emigrazione» come il Canada, l’Australia, e alcune mete dell’America Latina, tornate in auge dopo le politiche di chiusura all’immigrazione europea attuate a partire dagli anni venti. A differenza di Colucci, De Clementi dedica molta più attenzione ai processi di integrazione dei lavoratori italiani nelle società di emigrazione, con un occhio di riguardo particolare alla condizione femminile, e promette di affrontare più diffusamente gli aspetti economici connessi alle politiche di emigrazione assistita, dal ruolo del Piano Marshall nel provocare – o consolidare – antiche e nuove distinzioni tra paesi importatori e paesi esportatori di manodopera, all’impatto delle rimesse nella ricostruzione postbellica italiana. A tale fine, l’autrice fonda la propria analisi su un apparato documentale considerevole, che è tuttavia essenzialmente limitato a tre fonti principali e «tutte italiane», come si rivendica nell’introduzione: Ministero degli Esteri, Ministero del Lavoro, e una serie di rapporti raccolti dalle rappresentanze acli, in alcuni dei paesi di destinazione dei migranti italiani. La trattazione, su un piano stilistico ed espositivo, è meno sistematica rispetto al volume di Colucci. Analisi delle varie esperienze emigratorie e descrizione dei relativi dati quantitativi sono diluiti nei vari capitoli del libro, anziché essere raccolte in singoli capitoli o paragrafi, suddivisi per singole nazioni. Manca, inoltre, una disamina puntuale e dettagliata degli accordi bilaterali che lo stato italiano stipulò con i paesi di emigrazione considerati. Di conseguenza, risulta molto più complesso e laborioso annodare i fili della narrazione e formarsi una visione di sintesi degli eventi.
In verità, i tratti meno convincenti del lavoro sono due. Il primo è relativo al legame tra ripresa dell’emigrazione e ricostruzione postbellica. Da una parte, De Clementi non riesce a esporre abbastanza chiaramente le responsabilità del Piano Marshall nel promuovere programmi di emigrazione assistita verso il Sud America. Come sappiamo da altri lavori (Stabili, Favero), parte dei fondi statunitensi furono gestiti dall’Istituto di credito per il lavoro italiano all’estero (icle), per organizzare missioni di colonizzazione in Argentina, Brasile, Cile, Costa Rica, Perú, Colombia e Uruguay, per la forza-lavoro italiana disoccupata. Dall’altra, non ci viene fornita alcuna informazione né una serie di dati economici, relativi all’impatto che le rimesse dei lavoratori hanno avuto nella ricostruzione del secondo dopoguerra. Il secondo limite è che la ricerca viene presentata come storiograficamente e scientificamente innovativa, ma evidenzia invece forti debolezze sul piano teorico e scientifico. La scelta di non considerare nessuna fonte dei paesi di destinazione riduce sensibilmente il respiro della trattazione e proietta sulla ricerca l’ombra del nazionalismo metodologico, contro il quale molto è stato scritto e detto nella storiografia più recente, soprattutto nel campo degli studi migratori. Non vi è nessun tentativo di confrontare il caso dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra con altri lavori che hanno affrontato, per esempio, tentativi di controllo e gestione dell’emigrazione da parte dello stato italiano in epoche precedenti (Smith, Choate, Ostuni, Douki) o di interagire con i lavori sul sistema migratorio internazionale ed europeo (Bade, Corti, Lucassen, Collinson). D’altro canto, la bibliografia del volume presenta qualche lacuna ed è un po’ datata: con l’eccezione di pochi titoli, uno dei quali è il lavoro di Colucci, gli studi citati non si spingono oltre il 1998. L’autrice non sembra tenere debitamente conto, nella conduzione della sua ricerca e nella formazione dell’interpretazione storica, di tutta una serie di contributi teorici e di indagini più recenti. È ovviamente una scelta del tutto legittima, ma certo una giustificazione critica dei motivi che hanno indotto De Clementi a non confrontarsi o dialogare con determinate opere, metterebbe il lettore, specializzato e non, nella condizione di comprendere a pieno le coordinate entro le quali il contributo si inserisce e le novità che il lavoro porta alla discussione sul tema, in termini sia di informazioni sia di interpretazione storica. Per esempio, sarebbe stato utile comprendere sotto quali aspetti l’autrice consideri una novità i flussi di manodopera femminile nel secondo dopoguerra, a fronte dei lavori di Paola Corti e Patrizia Audenino sull’emigrazione femminile verso la Francia in epoche precedenti o del volume sulle lavoratrici italiane nel mondo, a cura di Donna Gabaccia e Franca Iacovetta.
Guido Tintori