Il libro di Simona Frasca – musicista, musicologa e critica musicale – affronta un tema poco indagato dagli studi sugli italiani negli Stati Uniti, cioè il ruolo della musica napoletana diffusasi oltre oceano negli anni dell’emigrazione di massa. La musica fu una significativa componente della socialità nelle Little Italies, tanto che questa poteva essere ascoltata in molti luoghi di intrattenimento, quali ristoranti, bar, sale da concerto e teatri; nel 1924 si giunse persino all’istituzione di un sindacato a tutela dei musicisti. Inoltre, la radio fu un ulteriore importante strumento di diffusione della musica italiana.
Già la storica Anna Maria Martellone («La “rappresentazione” dell’identità italoamericana: teatro e feste nelle Little Italy statunitensi», in Bertelli S. [a cura di], La Chioma della Vittoria, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997, pp. 357-91; «The Formation of an Italian-American Identity through Popular Theatre», in Sollors W. [a cura di], Multilingual America. Transnationalism, Ethnicity and the Languages of American Literature, New York, New York University Press, 1998, pp. 240-45) aveva evidenziato l’importanza dell’opera nelle comunità italoamericane anche in termini di promozione di un’identità nazionale, nonostante la maggioranza degli immigrati avesse un background di working-class e scarsa formazione culturale. Fra i tenori, sicuramente il più famoso fu Enrico Caruso, cantante napoletano emigrato agli inizi del secolo a New York dove ottenne uno straordinario successo, vendendo più di un milione di dischi e giungendo a esibirsi alla Metropolitan Opera di New York. In particolare, Caruso seppe rivolgersi a un pubblico indistinto, superando le divisioni di classe nel contesto immigratorio e divenendovi un modello sociale di riferimento. Caruso fu pertanto un esempio di meridionalità di successo che ebbe una sua valenza nella lotta contro i pregiudizi anti-italiani assai diffusi nel mondo anglosassone. Il tenore seppe conquistarsi le simpatie degli immigrati con cui mantenne sempre un legame stretto, proponendo con le sue canzoni aspetti cari agli italiani espatriati, quali il ricordo per la terra natia o la donna amata lasciata in Italia, temi condivisi da molte tradizioni popolari etniche diffuse oltre oceano fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Frasca analizza filologicamente i testi delle canzoni di Caruso e mostra come il linguaggio ibrido italoamericano risenta delle influenze della lingua americana e delle espressioni dialettali italiane, una questione esaminata in passato da linguisti come Hermann W. Haller (Una lingua perduta e ritrovata. L’italiano degli italoamericani, Firenze, La Nuova Italia, 1993)e recentemente ribadita dalla storica Nancy C. Carnevale (A New Language, A New World. Italian Immigrants in the United States, 1890-1945, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2009). L’esempio di Caruso fu, del resto, la spinta che indusse molti artisti napoletani a tentare negli anni venti la strada del successo negli Stati Uniti, creando una rete con l’Italia nel mondo teatrale e musicale che era parte integrante non solo di un sistema di svago ed entertainment nelle comunità italiane, ma anche di un’identità transnazionale degli immigrati.
Fra gli aspetti pregnanti del volume di Frasca vi è sicuramente l’indagine della musica italiana come caratterizzata da contaminazioni con altre espressioni musicali. È il caso di Eduardo Migliaccio, detto Farfariello, noto macchiettista fra i cui testi ve ne sono alcuni adattati da originali americani, mentre altri sono profondamente influenzati dalla stessa musica statunitense. Esperienza simile caratterizza il lavoro di Giuseppe De Laurentiis, alcune canzoni del quale sono anch’esse derivate da arrangiamenti di musica statunitense. La contaminazione era il risultato anche del forte transnazionalismo degli artisti italiani, i quali contribuirono all’esportazione della musica statunitense in Italia. Questa ebbe ampia diffusione in Europa, soprattutto a partire dagli anni venti del Novecento, come nel caso dello shimmy, ballo originario della Nigeria che si sviluppò negli Stati Uniti intorno agli anni dieci del Novecento e fu trapiantato in Europa nel decennio successivo. Lo shimmy giunse anche a Napoli, così come il charleston e la rumba, tanto da provocare sdegnate reazioni «nativiste» da parte di alcuni strenui sostenitori della canzone napoletana. Inoltre, la musica italoamericana trovò forma in espressioni «ibride» attraverso l’incontro con la musica latino-americana, grazie soprattutto ad autori come Alfredo Cibelli, compositore, talent-scout, manager ed editore. In generale – ricorda Frasca – il repertorio napoletano di inizio Novecento «vive con grande duttilità e interattività l’adozione di alcuni moduli ritmici americani. L’industria discografica è una realtà che si affaccia prepotente all’orizzonte e l’America gestisce tenacemente questo mercato in virtù di una posizione privilegiata che le deriva proprio dal fatto di essere stata terreno di incontro e scontro delle culture più disparate» (pp. 125-26).
Sebbene il volume di Frasca offra interessanti informazioni sul mondo musicale italoamericano, l’autrice predilige una narrazione descrittiva rispetto a una più contenutistica. Questo appare il limite maggiore di un volume che – a parere di chi scrive – non indaga in maniera troppo approfondita come la musica napoletana abbia influito sull’identità etnica italiana e sul mondo dello svago nelle Little Italies. Ampio spazio viene riservato alla figura di Enrico Caruso per il quale, se si comprende il ruolo preminente nelle comunità, non sono chiarissime le forme attraverso cui questo apprezzamento si espresse. In particolare, alcune questioni potrebbero essere poste: vi fu fra Caruso e i prominenti etnici un legame, visto anche il suo ruolo di simbolo di un’identità etnica nazionale? Quale fu il legame dell’associazionismo etnico con il tenore? Frasca accenna poi a questioni di genere, notando come le cantanti italoamericane ebbero un ruolo di rilievo nello scenario musicale d’oltre oceano, ma non dice molto su come queste autrici possano (o non possano) aver avuto un’influenza per l’identità delle lavoratrici immigrate. Forse i limiti maggiori del volume risiedono nell’approccio metodologico. Se sono interessanti le analisi filologiche dei testi delle canzoni napoletane, l’autrice sembra non contestualizzare eccessivamente il suo studio nel quadro storiografico. Si può anche ipotizzare che uno spoglio consistente di giornali etnici avrebbe fornito fonti preziose per definire meglio il legame fra la musica napoletana, e più in generale italiana, e l’identità italoamericana.
Matteo Pretelli