L’espressione «terra promessa» costituisce una metafora largamente utilizzata per designare la destinazione degli emigranti. Il suo impiego al plurale quale tematica del convegno organizzato dal John D. Calandra Institute sui luoghi della cosiddetta «diaspora italiana» ha alluso non soltanto alla molteplicità delle mete degli espatriati, ma anche alla pluralità delle loro aspettative individuali e collettive, nonché all’articolazione degli insediamenti sia come realtà fisiche sia in quanto spazi di manifestazione dell’identità nelle sue più diverse forme. Nel loro complesso, pertanto, le oltre trenta relazioni presentate hanno tracciato una topografia geografica e mentale delle migrazioni italiane, con particolare riferimento alle vicende statunitensi.
Per quanto riguarda la dimensione simbolica, come ha notato Luisa Del Giudice nella sua prolusione, il retaggio delle privazioni alimentari indusse un gran numero di italiani a proiettare sull’America l’immagine tradizionale del «paese della cuccagna», diffusa nella cultura popolare a partire dal diciassettesimo secolo, fino a trasfigurare la percezione degli Stati Uniti nell’incarnazione della terra dell’abbondanza di cibo. Però, questo esito, come sottolineato nella relazione di Joseph J. Inguanti, non costituì solo il frutto di una elaborazione dal basso, da parte di chi aspirava a migliorare la propria condizione, ma si configurò pure come il risultato di un’iniziativa dall’alto di coloro che, dalle compagnie di navigazione ad alcune amministrazioni o imprenditori locali, si proposero di indurre gli emigranti ad abbandonare il luogo d’origine alla volta degli Stati Uniti e decantarono, pertanto, l’ambiente che costoro avrebbero trovato. Come tale, l’immagine dell’America quale luogo della prosperità rappresentò, quindi, una costruzione destinata a scontrarsi con la dura realtà a cui gli immigrati andarono incontro.
La dimensione simbolica della presenza italiana è ricorsa anche in due interventi incentrati sulle celebrazioni religiose legate soprattutto alla festa del Giglio nel distretto di Williamsburg a New York. Nel primo, Joseph Sciorra ha esaminato come le pratiche devozionali siano state influenzate dalle trasformazioni urbane del quartiere e, in particolare, in quale modo la processione in onore di San Paolino si sia caratterizzata come il veicolo per l’esercizio dell’egemonia sullo spazio locale. A fronte di un calo della partecipazione e del coinvolgimento a seguito dell’esodo di parte degli abitanti italoamericani della zona, la cerimonia è così passata da occasione di ritrovo per la diaspora di Nola prima, e per gli italoamericani che in seguito hanno abbandonato il quartiere, a motivo di confronto tra la popolazione di origine italiana rimasta e i nuovi residenti di diversa ascendenza che ne vorrebbero il ridimensionamento se non addirittura la soppressione. Nella seconda relazione, Dana David si è soffermata sulla fase della questua e della distribuzione del pane benedetto come strumenti di consolidamento dei legami comunitari così che questa facade performance – per ricorrere all’espressione di Dorothy Noyes («The Judgment of Solomon», Cultural Analysis, 2006) – da una valenza religiosa ha finito col tempo per assumere una dimensione sempre più sociale.
Su un terreno analogo, l’aspetto della competizione simbolica tra i gruppi per il controllo dello spazio è stata affrontata da Jerome Krase attraverso un esame dei segni visivi della presenza italoamericana nel paesaggio urbano delle Little Italies. L’identità etnica come luogo di conflitto è emersa pure dal contributo di Ottorino Cappelli. Traendo spunto dalla polemica di alcune organizzazioni etniche sia contro la messa in onda del reality showJersey Shore – accusato di diffamare gli italoamericani – sia perfino contro il tentativo intellettuale di studiare il fenomeno culturale che la trasmissione si propone di rappresentare, Cappelli ha attribuito l’intolleranza che sta alla base della protesta al retaggio del ruolo del fascismo nel consolidamento di una coscienza nazionale tra la popolazione statunitense di origine italiana.
Invece, sulla falsariga della ricerca delle proprie radici calabresi attraverso Internet, Robert Oppedisano ha suggerito come le nuove tecnologie informatiche rendano possibile la costruzione di comunità virtuali di italiani che, attraverso la rete, riescono a superare la separazione nello spazio fisico per coltivare, sviluppare e soprattutto condividere il comune retaggio culturale legato alla terra d’origine. Nel campo della critica letteraria, Jim Cocola ha analizzato come la collocazione etno-razziale dei personaggi autobiografici di John Fante sia funzione della loro collocazione territoriale per cui la loro appartenenza alla razza bianca è messa in discussione in Colorado, mentre sono considerati quasi alla stregua degli anglosassoni in California.
Altre relazioni, di impianto e prospettive più tradizionali, si sono occupate degli elementi più materiali del popolamento. Giuseppe Di Scipio ha tracciato le origini della presenza italiana nella Virginia coloniale, collocandole – se non nel biennio successivo alla fondazione di Jamestown nel 1607, come è stato ipotizzato in passato – almeno nel 1621 quando è documentata la presenza di manodopera specializzata veneziana impiegata nella lavorazione del vetro, giunta nel Nuovo Mondo dopo un periodo di residenza e di attività a Londra. Victor A. Basile ha ricostruito la formazione degli insediamenti italiani nei cantieri ferroviari e nelle comunità minerarie dello stato della West Virginia, mentre Joan Saverino ha affrontato la memoria storica e personale dell’incidente minerario del 6 dicembre 1907 che causò la morte di almeno 171 italoamericani. Gerald T. McNeill e Melissa Puglia McNeill si sono soffermati sull’immigrazione siciliana a New Orleans negli ultimi decenni dell’Ottocento, indicandone l’apporto allo sviluppo culturale di questa città principalmente nel campo del teatro, della musica – in riferimento soprattutto al jazz – e dell’alimentazione.
In quest’ultimo settore, un contributo molto più significativo è venuto dall’intervento di Simone Cinotto. Reiterando le conclusioni di una sua recente monografia (Terra soffice uva nera,Torino, Otto, 2008), Cinotto ha illustrato il successo imprenditoriale di alcuni vitivinicoltori di origine piemontese come Pier Carlo Rossi, Secondo Guasti e i fratelli Gallo. La chiave della loro affermazione economica, secondo Cinotto, sarebbe da attribuire al proficuo connubio tra le basse retribuzioni della manodopera qualificata e il contenimento della conflittualità sociale nelle aziende, reso possibile – in una prospettiva di cooperazione etnica – dalla assunzione di lavoratori di ascendenza italiana e dalla concessione di alcuni benefici tra i quali l’edificazione di una gerarchia etno-razziale in ragione della quale gli italoamericani ottennero la garanzia di vedersi risparmiata la relegazione a mansioni stagionali e faticose per le quali venivano invece impiegati addetti ispanici o asiatici.
Gli interventi non si solo limitati alla sola esperienza statunitense. Per esempio, Cristina Bettin ha trattato l’emigrazione degli ebrei italiani in Palestina dopo la Seconda guerra mondiale, soffermandosi sul mantenimento di alcuni tratti della loro identità nazionale italiana. Di contro, Dennis Barone si è occupato di una sorta di immigrazione di ritorno, rappresentata dagli italiani convertitisi al protestantesimo che compirono un percorso a ritroso per cercare, tra innumerevoli difficoltà, di evangelizzare i loro compatrioti nei decenni postunitari.
Relazioni come quelle di McNeill e Puglia McNeill o di Di Scipio hanno denotato la riproposizione di un approccio agiografico oramai superato alla storia dell’immigrazione italiana, che in passato è stato impiegato per legittimare la presenza degli italoamericani negli Stati Uniti attraverso l’enfatizzazione del loro contributo allo sviluppo della società di adozione, oppure l’attestazione del loro radicamento nella terra d’adozione fino dal periodo coloniale. Tale prospettiva è stata, però, ampiamente compensata dalla prevalenza di relazioni maggiormente in sintonia con gli sviluppi più recenti degli studi italoamericani, sia nella direzione del transnazionalismo e della valorizzazione della cultura italiana in una dimensione glocale, come nel caso del già menzionato intervento di Oppedisano, sia verso l’inclusione delle colonie africane nella topografia degli italiani fuori d’Italia, come mostrato dal contributo di Anne Marie Tamis sul film di propaganda fascista Abuna Messias (1939), dedicato dal regista Goffredo Alessandrini al viaggio apostolico del cardinale Guglielmo Massaia nell’Etiopia dell’imperatore Menelik.
Stefano Luconi