Ripensare la cultura italiana e quella italoamericana in chiave auto-critica e radicale, attraverso nuovi strumenti di lettura e nuove interpretazioni, è un’operazione necessaria oltre che innovativa. Ma soprattutto, generare un nuovo «Manifesto» degli studi italiani che sia rappresentativo del xxi secolo e non più ancorato ai vecchi stereotipi, risulta essere un obiettivo immediato che non si può più posticipare. È questo lo scopo principale della conferenza «For a Dangerous Pedagogy: A Manifesto for Italian and Italian American Studies», una quattro giorni (dal 14 al 17 Aprile a Long Island presso la Hofstra University, alla Columbia e alla New York University), di dibattiti, seminari e riflessioni, organizzata dalla Hofstra University insieme all’Accademia Italiana per gli Studi Avanzati in America, Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University e Hofstra Cultural Centre.
Riduttivo definirla una semplice conferenza, perché a essere affrontati sono stati molteplici aspetti che riguardano gli studi della cultura italiana e di quella che viene definita «italianistica»: dalla storia della vecchia e nuova immigrazione, alla mafia, alla politica, alla letteratura, all’arte, alla cultura italoamericana, fino ad arrivare ai giorni nostri con il Premier Silvio Berlusconi e il nuovo volto della politica italiana.
Un dialogo multiculturale e multidisciplinare dove il fil rouge è la vitale ridefinizione dell’italianistica come nuova disciplina di studi. Un contenitore globale che si basa su quattro linee tematiche principali: un dialogo necessario per far riavvicinare la cultura italiana e quella italoamericana; una pedagogia critica e autocritica per lo studio italoamericano; la cultura italiana secondo un approccio filosofico e teoretico e il pensiero di Gramsci dopo il post-modernismo. Il symposium è nato dall’idea di Pellegrino D’Acierno e Stanislao Pugliese, entrambi professori alla Hofstra University. D’Acierno, nell’intervento di apertura, ha lanciato una sfida: creare un nuovo «Manifesto degli studi italiani» per questo xxi secolo e ricreare un ponte con gli studi italoamericani.
E a rispondere sono stati in molti: intellettuali, appassionati di cultura italiana e qualche studente. Così, si è cominciato con il parlare di un nuovo approccio pedagogico che inevitabilmente tocca le due culture, quella italiana e quella italoamericana. Interessante è stata la riflessione e l’analisi di Thomas Ferraro della Duke University, che ha esplorato la presenza nella letteratura protestante di certi elementi riconducibili al cattolicesimo e a certa letteratura italiana. O ancora, come non parlare di cultura italiana in America senza fare riferimento a quello che John Gennari ha definito sound memories: la musicalità della lingua italiana che passa attraverso la storia della migrazione in America e attraverso il ricongiungimento con tutto quel bagaglio di tradizioni e ricordi legati alla terra di origine?
Nel nuovo «Manifesto» si è affrontato anche il tema della «pedagogia transnazionale», un nuovo approccio didattico che fa uso di innovativi strumenti e riferimenti, come il nuovo processo migratorio in Italia. Con una ricerca non solo linguistica ma socio-culturale, Teresa Fiore della California State University, ha affrontato l’uso del linguaggio che nasce dalla nuova migrazione, nella didattica italiana. Un approccio nuovo dal quale nasce un quadro moderno e dinamico della lingua italiana, influenzata ora più che mai dall’apporto dei nuovi immigrati nel Belpaese.
Non solo letteratura, non solo linguistica, a creare un nuovo manifesto ci pensa anche l’arte. Da Lucio Pozzi, artista italiano che ha vissuto a New York, ad Anni Lanzillotto, abbiamo esplorato le due diverse forme di vedere l’arte: da quella più concettuale di Pozzi a quella istintiva, «di pancia», sperimentale di Lanzillotto.
Se si parla di nuova didattica e di nuovo approccio negli studi dell’italianistica, allora come parlare di mafia ai ragazzi senza imbattersi nei soliti clichè o in concetti pre-confezionati da fiction? Lo ha fatto alla conferenza Stefano Vaccara, giornalista di «America Oggi», che nella sua esperienza di docente affronta il tema della mafia in maniera storica e lontana dai luoghi comuni. «La mafia – ha affermato Vaccara – non è mai stata studiata, soprattutto negli Stati Uniti, come fenomeno politico-sociale, ma come intrattenimento. La mafia nasce 150 fa con l’Unità d’Italia ed è proprio da questo legame imprescindibile tra stato e mafia che inizio a spiegare ai ragazzi il fenomeno».
E sono molti gli aspetti discussi durante questa quattro giorni, tutti legati filologicamente in maniera coerente e intelligente, stuzzicando gli spettatori con dibattiti, ma anche commuovendoli. Come ha fatto Bernadette Amore, artista italoamericana con le sue immagini con cui ci ha raccontato la storia della sua famiglia emigrata dalla Campania. Un viaggio nella memoria, tessuto e ricostruito con molto garbo e delicatezza. Un progetto personale ma anche collettivo e sociale.
Se a legare la cultura italiana e quella italoamericana è lo storico processo della migrazione, non c’è letteratura, cinematografia che non ne abbia parlato. Da Crialese, con il suo «Nuovomondo», a Gianfranco Norelli, regista di «Pane Amaro», un documentario sull’arrivo degli italiani in America che ha anche uno scopo didattico oltre che storico.
Italian cultureversus cultura italoamericana: contrapposizione o legame inevitabile? Cosa significa essere uno scrittore italoamericano? «Significa – ha detto Frank Lenticchia della Duke University, nel suo keynote address – fare inevitabilmente i conti con il proprio passato genealogico. La scrittura italoamericana deve essere rivalutata e vista in maniera indipendente da quella italiana».
In che direzione stiamo andando? Gli studiosi si chiedono verso quale nuova forma di rivoluzione si stiano indirizzando gli studi italiani. Una domanda che non può non toccare aspetti legati alla società e alla politica. Così, si parla di Berlusconi, del fenomeno della Lega e di questa forma di razzismo che sembra toccare l’Italia. «Che a guardare semplicemente il fenomeno – ha dichiarato Stefano Alberini, Direttore di Casa Italiana Zerilli Marimò – è troppo riduttivo rispondere con un sì alla domanda: l’Italia è un paese razzista? Occorre vedere tutte le dinamiche migratorie e sociali di un paese che sta cambiando».
«La cultura italiana – ha sottolineato Pellegrino D’Acierno – sta vivendo una fase “comatosa”, bisogna sia più autocritica e multidisciplinare, aperta a ogni contaminazione e a un orientamento più globale. Va bene lo studio di Dante, va benissimo il Rinascimento, ma l’approccio umanistico non può essere l’unico e quello esclusivo nell’insegnamento delle discipline legate all’italiano». D’Acierno definisce la cultura italiana oggi una Buffalo soup culture: una cultura che manca di politicizzazione e di ogni forma di intellettualizzazione a livello politico, sociale e accademico.
«A dominare oggi – ha concluso D’Acierno – sono il caos, l’essere approssimativi e l’eccessiva identificazione tra il modello politico dettato da Berlusconi e la cultura di massa. Un modello lontano da quell’ideale che da sempre ha caratterizzato il genius italiano. “Coma culture” è un’espressione che meglio di ogni altra spiega quella che si potrebbe definire stagnazione dell’humus culturale italiano: mancanza di ogni fermento vitale. Ma il fatto che in questi giorni sia nato un acceso dibattito e un interesse da parte di tutti significa che la cultura italiana è viva più che mai».
Liliana Rosano