Con qualche ritardo la storiografia italiana sembra essersi finalmente accorta della stretta correlazione esistente, dopo la Seconda guerra mondiale, tra l’emigrazione italiana in America Latina, in Argentina e Brasile in particolare, e i processi di internazionalizzazione delle principali imprese nazionali: a partire dalla Fiat, la cui espansione nella regione è oggetto ora dei saggi di Camillo Robertini ed Eugenia Scarzanella.
Una delle ragioni della penuria di studi emerge indirettamente ma chiaramente da questi due volumi: l’inesistenza o la scarsa accessibilità in loco degli archivi delle imprese italiane. A questa lacuna, in apparenza difficile da colmare (si pensi alla mancanza delle informazioni sul personale), entrambi gli autori hanno saputo ampiamente ovviare, ancorché da approcci diversi. Robertini ha puntato prevalentemente sulle fonti orali, mentre Scarzanella ha privilegiato archivi e biblioteche, anche se a sua volta ha integrato la ricerca con interviste. Hanno così costruito un corpus di fonti ricchissimo e vario: dalle testimonianze personali alla letteratura «grigia» degli opuscoli, dalla stampa quotidiana alle riviste aziendali, dalla memorialistica fino alla pubblicità o al cinema.
I risultati sono nei due casi notevoli, per la capacità degli autori di incrociare la documentazione raccolta e l’ampiezza di prospettive che ne è derivata, con ricostruzioni che vanno oltre le vicende dell’impresa in sé e abbracciano i contesti politici ed economici in cui la Fiat operò in Argentina e in Brasile, i principali paesi in cui si svolgono le storie raccontate in questi libri. Per il resto, si tratta di due testi profondamente diversi.
Robertini studia uno stabilimento, quello che la Fiat costruì a El Palomar, nella periferia nord-ovest di Buenos Aires, tra il 1964 e il 1980, quando esso fu uno dei principali poli produttivi del gruppo in Argentina e non solo produsse quasi il 60% di tutte le utilitarie che uscirono dalle fabbriche del paese. Per quanto, come dichiarato nell’introduzione, il libro coniughi storia d’impresa e storia del lavoro, è la seconda a prevalere: al centro, più che l’iniziativa della fiat o le strategie dei dirigenti che guidarono la fabbrica, ci sono il vissuto e la memoria degli ex operai che Robertini recupera attraverso quaranta lunghe interviste non strutturate a risposta libera.
Il libro è suddiviso in cinque capitoli. Il primo affronta l’insediamento industriale della Fiat nella periferia di Buenos Aires alla metà degli anni sessanta: fin dall’inaugurazione fu salutato come un successo italo-argentino e una promessa di progresso non solo dai dirigenti ma anche dagli operai, in maggioranza immigrati italiani giunti in Argentina dopo la guerra. I secondi ricordano l’assunzione alla Fiat come un colpo di fortuna: la realizzazione di «un sogno» fatto di modernità, accesso ai consumi (a partire dalle stesse auto «600» prodotte dalla Fiat) e accresciuto prestigio sociale, perché lavorare in Fiat garantiva uno status superiore rispetto alla condizione operaia standard.
Robertini, che pure in tutto il volume adotta con sensibilità e senza paraventi ideologici il punto di vista «nativo» degli intervistati, non trascura di segnalare anche cosa la «grande fabbrica» fordista significò in termini di disciplinamento degli operai, dentro e fuori gli impianti: in Italia la Fiat aveva una lunga consuetudine con tali pratiche e nel secondo capitolo, anche attraverso l’analisi di fonti interne (dai regolamenti di fabbrica alle riviste aziendali), è ben illustrato il combinato di paternalismo e benefit aziendali che le fecero accettare in Argentina, anche di buon grado, a una manodopera in parte nuova all’impiego nell’industria.
Nel terzo capitolo l’autore studia anzi il processo per cui col tempo si formò dentro la fabbrica e nel quartiere operaio sortole attorno, una vera e propria comunità, identificata con i valori del laburo, e orgogliosa del proprio contributo alla causa aziendale della produzione, sentita come propria e insieme nazionale.
Per quest’ultimo aspetto, l’italianità della Fiat pesò certamente nel farla percepire tale, in un paese in cui l’elemento italiano, dopo un lungo percorso di riconoscimento (e auto-riconoscimento, dati i numeri del flusso migratorio dalla penisola), nel secondo dopoguerra era ormai considerato come costitutivo del ser nacional. Nel primo caso, invece, un fattore decisivo nel favorire il processo di identificazione operai-Fiat fu la mediazione del sindacato uom, cattolico e peronista, che a El Palomar fu largamente maggioritario, a differenza di altri siti produttivi Fiat nell’interno dell’Argentina.
La presa del peronismo nei settori operai sindacalizzati, soprattutto di Buenos Aires e delle cinture industriali attorno alla capitale, è nota e ampiamente studiata. Qui, però, siamo di fronte all’adesione in massa allo uom non tanto o non solo di lavoratori provenienti dalle province dell’interno, come nella classica interpretazione di Gino Germani, quanto di immigrati italiani, che presumibilmente in molti casi non erano digiuni di lotte sindacali in patria.
Per riferirsi ai rapporti di fabbrica a El Palomar Robertini utilizza il concetto di corporativismo: si può convenire, ma nei racconti e nelle biografie dei militanti sindacali intervistati tale regime appare l’applicazione del justicialismo di Juan Domingo Perón (la terza via tra capitalismo e comunismo) più che il prodotto dell’azione della Fiat.
Se il microcosmo della fabbrica rimane il centro, la storia turbolenta e tragica dell’Argentina degli anni sessanta e settanta fa irruzione negli ultimi due capitoli. I governi militari, prima dal 1966 al 1973 e poi soprattutto dal 1976, sfociarono in un’azione repressiva abbattutasi anche sullo stabilimento di El Palomar, con la desaparición di quattordici operai e la detenzione illegale di altre decine.
Nelle testimonianze raccolte da Robertini, le complicità di diverso tipo dell’impresa, che pure ci furono, sono significativamente poco evidenti, mentre emergono, tra i non detti, quelle di esponenti sindacali che approfittarono della situazione per una resa dei conti con i militanti di formazioni di estrema sinistra presenti in fabbrica. La maggioranza trovò giocoforza una forma di convivenza con la dittatura, considerandosi estranea a eventi che non la toccarono personalmente: El Palomar non fece eccezione, rispetto al resto della società argentina.
La dittatura del 1976 rappresenta una cesura anche nel libro di Scarzanella: le politiche economiche della Giunta giunta militare, che aprì il mercato argentino alle importazioni, indussero infatti la Fiat a lasciare l’Argentina e a spostare la propria attività produttiva in Brasile.
Il volume ricostruisce l’attività del gruppo fiat in America Latina, concentrata in due paesi soprattutto, Argentina e Brasile, nel periodo compreso tra il 1946, quando l’azienda torinese stipulò con il governo di Perón il primo accordo per aprire una fabbrica di autocarri e il 2014, quando in seguito alla fusione con Chrysler e alla nascita di fca è iniziata una nuova storia pienamente multinazionale del gruppo.
La prospettiva adottata è quella della storia d’impresa: i protagonisti della vicenda raccontata dall’autrice non sono gli operai ma i dirigenti inviati dalla Fiat oltreoceano per guidare l’espansione nella regione, con le proprie strategie e i loro interlocutori: i vertici dell’azienda in Italia, da un lato, e quelli politici in loco, dall’altro. Il peso e il condizionamento che questi ultimi esercitarono emergono specialmente nei tre dei quattro capitoli del libro, dedicati alle alterne fortune di Fiat in Argentina. Scarzanella segnala che, come in Italia, anche in America Latina la Fiat fu sempre governativa, sia con governi civili che con quelli militari: la sua logica, come per ogni impresa, fu sempre solo la massimizzazione dei profitti.
In Argentina fu Perón il presidente con il quale le relazioni furono migliori: le sue politiche puntavano ad ampliare il processo di sostituzione delle importazioni e favorirono il radicamento di Fiat come di decine di altre imprese italiane nel paese, negli stessi anni in cui vi approdavano circa 400.000 immigrati dall’Italia. L’autrice segnala in proposito che la presenza di folte comunità italiane tanto in Argentina quanto in Brasile fu ragione non ultima del successo dell’azienda torinese. Più in generale sottolinea opportunamente quanto contarono nel determinarlo i fattori culturali: la percezione degli italiani come «meno stranieri» di altri uomini d’affari europei e nordamericani facilitò non poco l’azione del management italiano scelto da Fiat per le sue attività nella regione.
L’uomo chiave in tal senso fu un dirigente di grande visione e talento: Aurelio Peccei, proveniente dall’antifascismo e dalla Resistenza, a dimostrazione di quanto poco servano le appartenenze politiche quando si studia l’operato di manager e imprenditori, fu l’artefice delle trattative col governo peronista che consentirono il primo insediamento produttivo di Fiat nel paese e di tutte le mosse successive. Nel condurle, Peccei sfruttò al meglio le sue relazioni personali con membri dell’apparato burocratico governativo nonché la rete di rapporti in una comunità d’affari italiana che ruotava attorno a tecnici e industriali arrivati dopo la Seconda guerra mondiale, a partire da quello che, in virtù dei successi ottenuti con la sua Techint, ne sarà il leader riconosciuto per trent’anni, Agostino Rocca.
Dalla metà degli anni cinquanta la Fiat iniziò la produzione di trattori e poi dal 1960 di automobili. Come in Italia, in Argentina i modelli Fiat, in particolare la «600», diventarono l’emblema, nell’immaginario collettivo, di una motorizzazione di massa che Scarzanella mostra assai bene, utilizzando fonti quali i manifesti pubblicitari o il cinema, ma che fu raggiunta piuttosto tardi: a fine anni sessanta circolava in Argentina solamente un’auto ogni diciannove abitanti (contro una ogni sei in Italia).
Nel terzo capitolo Scarzanella analizza i quattro sviluppi che portarono la Fiat ad abbandonare l’Argentina alla fine degli anni settanta: nel quadro di un forte aumento della conflittualità sociale nel paese, dal 1969 negli stabilimenti Fiat iniziò un ciclo di durissime lotte operaie, con scioperi e occupazioni degli stabilimenti e presa di ostaggi, cui l’azienda rispose con licenziamenti di massa; nel 1972 fu sequestrato e assassinato dal movimento rivoluzionario trotskista erp Oberdan Sallustro, il braccio destro di Peccei cui era demandata la difficile gestione dei rapporti coi sindacati; alla morte nel 1974 di Perón, l’Argentina sprofondò nel caos economico e politico, in un crescendo di violenze delle formazioni armate e dei gruppi paramilitari illegali; la crisi petrolifera del 1973 innescò un cambio di paradigma a livello mondiale, con la perdita di centralità dell’industria automobilistica e il passaggio dal fordismo al just in time del toyotismo: dal 1976 per la Fiat le sue conseguenze si combinarono negativamente con le scelte liberiste della dittatura militare, determinando una vera «fuga» dal paese (p. 119).
In Brasile, dove la Fiat come in Argentina era presente dagli anni venti con una concessionaria ma aveva puntato dopo la Seconda solo sull’importazione, specialmente di trattori, il passaggio alla produzione era cominciato in ritardo rispetto ai concorrenti, nei primi anni settanta. Gli inizi, anche per gli effetti della crisi mondiale, furono difficili, anche se il primo stabilimento, costruito dopo l’accordo con lo Stato di Minas Gerais, poté giovarsi di copiosi incentivi statali e sfruttare il basso costo e la scarsa sindacalizzazione della manodopera locale.
La svolta arrivò solo negli anni novanta, legata prima ai vantaggi legislativi per le auto di piccola cilindrata, di cui la Fiat era in quel momento l’unico produttore nel paese, e poi a un cambio di strategia della stessa Fiat, che decise di produrre in Brasile la world car, un’auto specificamente pensata per essere esportata con pochi adattamenti in diversi mercati emergenti. Quest’ultimo passaggio innescò una crescita che portò la Fiat, sempre più in difficoltà in Italia e in Europa, a realizzare in Brasile quasi un quinto dei suoi ricavi nel comparto auto all’inizio del nuovo millennio.
Due libri, in conclusione, densi e complessi, che oltre a offrire un’analisi ad ampio raggio dell’espansione internazionale della Fiat sollevano una serie di interrogativi relativi alle modalità con le quali si svolse il processo di industrializzazione in America Latina nel secondo dopoguerra. Non è possibile approfondirli in questa sede, ma è auspicabile che i saggi di Robertini e Scarzanella servano da stimolo per nuove ricerche.
Federica Bertagna