Muovendosi sul crinale, oggi sempre più incerto tra fiction e documentario, questo lungometraggio, secondo la definizione dell’autore, «inventa» alcuni mesi della vita di Pasquale Donatone, emigrato a Chicago con la famiglia quando aveva nove anni ed espulso quattro decenni dopo dagli Stati Uniti perché trasportava nel suo minivan immigrati illegali che avevano appena superato il confine.
Nei primi minuti assistiamo dunque all’arresto e poi alla deportazione di Donatone. Questi infatti non ha mai richiesto la cittadinanza statunitense e ha optato per l’espulsione in quanto straniero delinquente, pur di non finire in cella. Lo ritroviamo poi a Polignano a Mare, presso Bari, dove nei primi giorni dorme in una grotta sulla spiaggia e poi, grazie a un sacerdote, lavora come attacchino di manifesti e dorme in una vecchia roulotte in una piccola area industriale dismessa. Donatone, mentre fa le pulizie e nutre le sue galline, racconta la sua gioventù nell’Illinois, il matrimonio e il divorzio, il trasferimento da una sorella a Yuma, dove, prima di guidare un minivan per una ditta di taxi, ha spacciato varie droghe.
Donatone dichiara di non riuscire a vivere in Italia e di voler tornare a ogni costo negli Stati Uniti, ma le autorità americane non lo prendono in considerazione. Ottiene quindi un biglietto per il Messico, grazie al sacerdote che lo aiuta, e raggiunge San Luis Rio Colorado, nello stato di Sonora, giusto dall’altra parte del Muro rispetto a Yuma. A questo punto quasi metà del film segue il suo andirivieni per la cittadina, dove incontra varie persone, persino la sorella viene a trovarlo, e chiede soccorso alla locale Casa del migrante. Qui un sacerdote cerca di dissuaderlo, come del resto tutti quelli che incontra: in Italia ha un alloggio e un lavoro, per quanto precari; negli Stati Uniti finirà nelle mani della polizia. Sennonché Donatone non vuole abbandonare il suo sogno e, comprati stivali e cappello da cowboy, si fa portare in taxi dove il muro è più basso. Nelle ultime riprese corre verso il confine, mentre rimpicciolisce per la progressiva lontananza.
Come spesso accade in questo genere cinematograficamente ibrido, la fotografia è splendida ed evocativa ed evidenzia risvolti imprevisti: per esempio, la somiglianza fra la periferia barese accanto agli svincoli autostradali e i paesaggi stradali del deserto del Sonora, sul versante statunitense e quello messicano. Inoltre il personaggio si autorappresenta con brio come un gemello del personaggio interpretato da Robert De Niro in Mean Streets (Scorsese, 1973). È un piccolo delinquente con poco sale in zucca sin dalla nascita, come racconta la sorella, e precocemente invecchiato, come racconta lui stesso a una messicana. Dai suoi discorsi emerge che non ha chiari i limiti posti al suo agire dalle circostanze e dalla legge e che inoltre è, da un lato, profondamente razzista, specie contro i neri, ma anche pronto ad appellarsi opportunisticamente a una «fratellanza» con i messicani espulsi dagli States e a dichiarare che l’America è stata fatta dagli emigranti.
Da questo punto di vista parrebbe l’ennesimo ritratto impietoso degli italo-statunitensi, il problema è che alla lunga la vicenda è esile e le immagini, per quanto splendide, mancano di ritmo. Paradossalmente è meglio ascoltare il sonoro a video spento, perché i dialoghi hanno una propria autorevolezza. Non è, però, questo un difetto specifico di Petrini, ma sembra il marchio di tutto questo sottogenere ibrido. Basta rivedere oggi le prime scene di Louisiana (The Other Side), acclamata opera del 2015 di Roberto Minervini, per notare come anche essa soffra dello stesso problema. Siamo di fronte, dunque, a un genere particolare, che sembra oggi particolarmente gradito ai giovani registi italiani che vogliono mostrare i risvolti oscuri (e un po’ patetici) degli Stati Uniti.
Matteo Sanfilippo