Il volume raccoglie otto contributi di Olimpia Gobbi, due inediti e sei già pubblicati in riviste o libri collettanei, basati su casi studio che si riferiscono alla vita sociale, economica e culturale del territorio marchigiano. Il filo che lega i vari capitoli è lo sguardo sull’esperienza femminile, sempre ben contestualizzata nel complesso di relazioni sociali, culturali, di potere in cui è inserita. La mobilità è sicuramente al centro del volume, sia come mobilità geografica sia come mobilità sociale, due dimensioni che frequentemente s’intrecciano.
In un arco cronologico che abbraccia il Settecento prerivoluzionario fino agli anni che seguono il primo conflitto mondiale si parla di donne che agiscono per imporsi in ambiti prima preclusi al genere femminile, nella cultura, nel lavoro, nell’esplorazione di nuovi mondi, nell’acquisizione di autonomia.
L’impostazione è orgogliosamente microstorica e restituisce una profondità di sguardo avvincente grazie all’incrocio costante di fonti diverse. Da questo lavoro di scavo e di confronto emergono realmente i meccanismi che s’innescano in un contesto sociale quando una donna o molte donne decidono di sconfinare in terreni che esulano dalla tradizionale divisione dei ruoli di genere. È così nel caso delle aggregate all’Accademia delle concezioniste di Ascoli Piceno, protagoniste del primo capitolo, che intorno alla metà del Settecento sfidano apertamente la parte più misogina del mondo culturale del loro tempo ricevendo derisione e tentativi di delegittimazione. A tali resistenze rispondono con spirito battagliero, denunciando gli atteggiamenti di discredito nelle loro pubblicazioni e invitando gli illustri detrattori a misurarsi in modo leale: «Venite dunque con me nel campo di Marte […] e non disdegnate di combattere con una femminetta» (p. 22), scrive la giovane suor Petronilla Capozi a un reverendo con cui aveva una disputa teologica. La mobilità geografica di questa donna dalle doti intellettive eccezionali è forse limitata rispetto a quella di altre protagoniste dei capitoli successivi, poiché circoscritta al territorio regionale dove compie un tour per dibattere pubblicamente di temi teologici con dotti uomini di alcuni centri marchigiani. Ma l’impatto di questo sconfinamento è forte e crea scompiglio nelle comunità cittadine e negli ambienti colti maschili. In questo la sua vicenda si collega a quella delle donne di famiglie artigiane e bracciantili, affrontata nel settimo e nell’ottavo capitolo, che nel secolo successivo vogliono partire da Ripatransone per andare a lavorare in Egitto. Anche in questo caso le società locali si allarmano poiché le donne ritornano dall’esperienza migratoria con risorse economiche, stili di vita e rivendicazioni che creano turbamento sociale. Ed ecco che si riattiva la strategia del discredito, con la quale si tenta di interrompere la catena migratoria femminile gettando su di essa l’ombra della prostituzione.
Nei tre capitoli centrati sulle emigrazioni Gobbi ricostruisce negoziazioni, aperti conflitti, strategie delle donne per affermare la loro volontà di fronte alle resistenze di chi è spaventato dal cambiamento: tra queste la ricerca di alleanze nella parte più progressista della società e della comunità. Il punto forte del libro è dunque quello di non limitarsi a ricostruire le vicende migratorie ma delineare anche le interazioni e le reazioni di attori diversi coinvolti a vario titolo: i familiari, i datori di lavoro, le autorità locali, nazionali e consolari e infine quelle religiose. Tutti questi soggetti hanno voce in un affresco che restituisce bene il clima di un momento e di un luogo in cui l’emigrazione, nelle sue varie forme, occupa un ruolo centrale. L’emigrazione delle donne che partono sole, nubili e coniugate, preoccupa, è sorvegliata, regolamentata, ostacolata, ma nonostante tutto è praticata con grande determinazione da chi la vede come un’irripetibile opportunità di promozione sociale.
Il libro include anche una mobilità coatta: quella delle schiave musulmane riscattate a metà Ottocento dal sacerdote Nicolò Olivieri e affidate a istituti religiosi del Piceno che ne dovevano favorire la conversione e il battesimo. È forse l’unico capitolo in cui prevale la descrizione del dispositivo di controllo sociale che agisce sulle vite delle protagoniste e che lascia meno spazio alle loro strategie. Le fonti non permettono di delineare eventuali relazioni costruite dalle schiave liberate al di fuori degli istituti religiosi né se ci siano stati percorsi matrimoniali o di lavoro. Sappiamo che, per essere incluse nella società in cui si ritrovano catapultate, devono apprendere le basi della cultura cattolica e convertirsi. Una abbraccia la vita monastica come via d’integrazione sociale; altre muoiono giovani perché non riescono ad adattarsi fisicamente e psicologicamente al nuovo contesto.
Un’analoga difficoltà a trovare posto nel tessuto sociale di arrivo si osserva nella coeva vicenda dell’immigrata francese Marie Lanoir, assunta a ricoprire un ruolo di responsabilità tecnica nella gerarchia dello zuccherificio di Grottammare. Di lei, unica lavoratrice in uno stabilimento di uomini, straniera, donna sola e indipendente in una comunità in cui questa condizione non era socialmente accettabile, le fonti hanno conservato pochissime tracce, tanto da far supporre che abbia cercato protezione scegliendo di vivere tra le mura di un convento.
Quarto e quinto capitolo hanno al centro il tema del lavoro. Anche qui la costruzione è dialettica e Gobbi mette utilmente a confronto rappresentazione e realtà: da un lato, il tentativo di confinare i lavori femminili in poche sfere tradizionali e rassicuranti; dall’altro, l’articolata presenza delle donne nei settori più innovativi (come nel caso della bacologia) e in quelli che saranno alla base dell’industrializzazione regionale.
Anna Badino