Tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’ultima decade del Novecento, in un’Europa che passava dalla sofferta ricostruzione postbellica all’avvento della globalizzazione economica, compì la sua breve parabola una peculiare professione itinerante: quella del magliaro, il venditore ambulante – perlopiù di abbigliamento – dedito a «un mestiere che mestiere non è» (p. 6). In tale significativa autodefinizione è già possibile rintracciare parte del fascino e dell’interesse che questa figura sfuggente e difficilmente classificabile negli schemi canonici dei lavoratori girovaghi ha suscitato nello storico Marcello Anselmo e nel regista e sceneggiatore Pietro Marcello.
Partendo dalle suggestioni offerte dalla tradizione popolare e dalla memoria familiare, ma con il proposito di andare oltre le facili semplificazioni, gli autori hanno dato vita a una ricerca condotta con cura e passione, che lascia quasi interamente ai protagonisti il compito di raccontare la propria esperienza. Nell’arco di circa dieci anni, tra il 2002 e il 2012, in Italia, Belgio e Germania sono state raccolte le testimonianze di dodici magliari napoletani, le cui voci intrecciano i fili di una trama che non solo ci rimanda il vivace affresco di tante vicende personali, ma riflette anche importanti fenomeni economici e socio-culturali del mondo contemporaneo. La progressiva espansione della società dei consumi di massa, l’emigrazione italiana verso l’Europa settentrionale, la costituzione di comunità italiane all’estero, il consolidarsi di quel mercato globalizzato che avrebbe poi, di fatto, determinato l’estinzione delle professioni girovaghe fanno da sfondo ai percorsi dei magliari e rappresentano realtà che essi vivono in prima persona. L’originalità e il valore del lavoro di Anselmo e Marcello risiedono soprattutto nell’aver saputo inquadrare con sensibilità le singole storie senza perdere di vista la più ampia cornice all’interno della quale esse si dipanano.
Tutti nati tra la metà degli anni trenta e i primi anni quaranta del secolo scorso, i magliari interpellati condividono un’infanzia difficile trascorsa nel duro periodo dell’immediato dopoguerra, l’estrazione proletaria, la necessità di guadagnare, l’insofferenza all’idea di svolgere un tradizionale lavoro dipendente. Interessante rilevare che a quest’ultima motivazione, in apparenza secondaria, i magliari riconoscono invece un peso decisivo nella loro scelta di affrontare l’espatrio e di dedicarsi a un’occupazione che non garantiva certezze, giacché il loro desiderio di autonomia prevaleva sul bisogno di avere uno stipendio sicuro. Come afferma con felice sintesi uno di loro, «c’era un’unica mentalità, uguale per tutti: cercare il godimento, lavorare in proprio e non stare sotto padrone» (p. 34). Quasi senza eccezioni, emerge dai vari racconti una lucida consapevolezza riguardo la propria attività, che viene riconosciuta come precaria e truffaldina, ma verso la quale alcuni nutrono anche un certo orgoglio. I magliari proponevano capi di qualità scadente, dando a credere al cliente di poter acquistare oggetti di valore a un prezzo basso per via della provenienza illecita della merce: agivano quindi ai limiti della legalità e per questo, nella lingua italiana, alla parola «magliaro» venne presto attribuito il significato di «imbroglione», con specifica allusione all’arte del raggiro di cui si esso si avvaleva per fare affari. Al tempo stesso, però, il loro commercio presupponeva una serie di «abilità sociali» che facevano sentire il magliaro profondamente diverso (e, nella sua visione, in un certo senso superiore) rispetto ad altri lavoratori, soprattutto operai: pazienza, padronanza della lingua, intuito, inventiva, una buona dose di sfacciataggine e di creatività erano tutte doti indispensabili per esercitare la professione.
Un altro proficuo spunto di riflessione è offerto proprio dall’autopercezione del magliaro come migrante sui generis, convinto del fatto che «noi mestieranti non siamo mai stati degli emigranti, perché uno andava e veniva come voleva, si stava due mesi qua, poi si partiva di nuovo» (p. 112), e in questo più vicino all’ambulante girovago stagionale dell’Ottocento che al gastarbeiter, termine che in Germania identificava il lavoratore operaio straniero. Inoltre, in contrapposizione con lo stereotipo dell’ambulante male in arnese che punta anche a impietosire con il suo aspetto trasandato, tutti gli intervistati rimarcano l’importanza di un decoro e di una signorilità impeccabili, perché «non è vero che l’abito non fa il monaco. L’abito lo fa il monaco! Chi fa questo mestiere deve avere un bel viso e deve essere un gentiluomo» (p. 28).
Gli autori hanno scelto di riservare pochissimo spazio a considerazioni di sintesi, preferendo dare voce alle fonti orali su cui il lavoro è sostanzialmente incentrato. Tuttavia, specie nei due brevi capitoli di raccordo curati da Anselmo, alcune precisazioni sul contesto politico aiutano il lettore a orientarsi meglio nei luoghi e nel tempo attraversati dai magliari. Risulta essenziale ad esempio, ancorché fugace, il riferimento agli accordi bilaterali del 1955 tra i governi De Gasperi e Adenauer sulle quote di forza lavoro, che resero la Repubblica federale tedesca una delle destinazioni privilegiate dei flussi migratori italiani e di conseguenza la meta più allettante per i magliari, che beneficiarono dell’apertura delle frontiere sebbene il loro commercio si rivolgesse solo in parte alle comunità immigrate.
La ricerca sconta talvolta la ripetitività delle interviste e risente dell’assenza di una bibliografia più ricca e completa. Riesce però a coinvolgere e a interessare, dimostrandosi capace di riflettere la complessità e la particolarità di un fenomeno tipico della migrazione italiana meritevole di ulteriori approfondimenti.
Francesca Puliga