Raccontami chi sei, quanti anni hai, dove sei nata e vissuta, e come sei arrivata a Montreal.
Allora, ho trentaquattro anni e sono nata a Torino. A otto anni è iniziato il mio percorso migratorio, imposto da mio padre, che mi ha portato nella provincia della provincia di Asti, aggiudicandosi così il premio di una figlia che per anni non ha pensato a nient’altro se non ad andarsene. Poi a diciannove anni sono ritornata Torino a studiare all’università, Psicologia. La mia esperienza fuori l’ho fatta con l’Erasmus, che ho fatto tardi, a ventitre o ventiquattro anni, anche perché alla facoltà mi sono iscritta nel 1997, e sono partita per l’Erasmus nel 2003. Allora l’Erasmus sembrava una cosa d’altri tempi, nessuno osava farlo e alcuni professori lo osteggiavano anche un po’, dicendo che non serviva a niente, che era solo un periodo di grande cazzeggio. Per quanto riguarda la mia facoltà, potevo scegliere fra quattro destinazioni, non è che Psicologia fosse così aperta al mondo come possono essere altre facoltà. Anni dopo ho saputo che sono state aggiunte molte altre destinazioni, come Istambul ad esempio. Io sono finita in Olanda, perché volevo imparare l’inglese, che sapevo male, malissimo, come tutti quelli che escono dalla scuola superiore. Iniziavo a desiderare di fare delle esperienze all’estero ed ad avvertire che la mi scelta di fare Psicologia fosse un po’, come dire, poco ricca accademicamente e intellettualmente, come studiare storia o letteratura. Non nel senso che non siano facoltà arricchenti, ma sai, quando ti aspetti di ricevere delle competenze cliniche e poi studi letteratura e storia, meglio che tu scelga direttamente di studiare letteratura e storia. Se le tue aspettative vengono disattese, devi cercare di ristrutturare la tua strada. Quindi io ho detto: « va bene, se ho le mie fantasie da grande esploratrice del mondo, e se ho la sindrome della crocerossina – cosa che hanno un po’ tutti quelli che studiano psicologia e le donne in particolare – ho bisogno quanto meno di iniziare a sapere le lingue prima di laurearmi». Vado a fare l’Erasmus e scopro cose incredibili. Certamente anche io ho passato più tempo a fare altre cose invece che a studiare, io ero alla fine del mio percorso universitario, mi mancavano due esami e la tesi; ho fatto una tesi di ricerca basata sul confronto fra l’Italia e l’Olanda, sul carcere. Avevo bisogno di entrare in un carcere, sia in Italia che in Olanda, e non è notoriamente una cosa facile perché le carceri non sono luoghi molto accessibili. E in Olanda ho scoperto delle cose incredibili: che non è normale studiare sul libro che ha scritto il tuo professore, che nella maggioranza dei casi insegna a Palazzo Nuovo e vive in via Mazzini; che non è normale fare un esame di psicologia e studiare solo Freud – perché si sa che Torino è una facoltà un po’ conservatrice come molte altre in Italia – e non studiavamo neanche Freud ma le interpretazioni di Freud scritte da questo o quest’altro professore, tutti di Torino, tutti amici fra loro e che abitano a due passi dall’Università e fuori dall’Ateneo non credo si interfaccino in maniera profonda con la comunità scientifica. Così a ventitre o ventiquattro anni mi trovo a scoprire l’acqua calda, e non che non fossi mai stata all’estero prima, anche se è vero che l’Olanda è un caso un po’ speciale. Tanto per cominciare, il primo giorno entro nella mia prima classe, ci saranno state circa quaranta persone, e io e altri quattro o cinque, esagerando potrei dire dieci, eravamo Erasmus: il prof entra e dice agli studenti che questo corso si sarebbe tenuto in inglese perché c’erano degli studenti Erasmus. Nessuno fa una piega, e da quel giorno in poi il corso si è tenuto in inglese per tre mesi. Era scioccante, mi sono immaginata una situazione simile in Italia: prima di tutto, un professore capace di tenere un corso come psicopatologia generale in un’altra lingua, in inglese, e poi la classe di fronte a lui – che con il vecchio ordinamento era costituta se va bene da seicento persone – che non fa una piega e in cui tutti continuano normalmente a prendere appunti dopo la dichiarazione del professore. Questi sono stati i primi elementi sconvolgenti della mia esperienza.
Ti interrompo, dov’eri in Olanda esattamente?
A Groningen. Ecco, quindi inizio a scoprire l’acqua calda attraverso queste piccole cose. In Italia, nel mio piccolo ateneo, nessuno mai mi aveva spinta a cercare giornali scientifici e a leggerli; in più, psicologia viene insegnata, a Torino almeno, in modo astratto e aleatorio. Là l’orientamento era meno tradizionale, meno freudiano, ma soprattutto ci insegnavano a saper usare anche degli strumenti tecnici che in psicologia sono utilissimi, con i programmi per fare le statistiche, spss. Ora, non è che sia la mia passione, però una cosa è non sentirsi vicina a particolari strumenti di ricerca – io stessa sono più vicina alle modalità qualitative ed orali, come quella che stiamo svolgendo adesso, anche se più difficile da gestire e meno generalizzabili – però un’altra cosa è non possedere neanche questa competenza. Almeno, io posso dire: « va bene, ho fatto psicologia ma non so ancora fare lo psicologo clinico a chissà quali livelli, però almeno so analizzare dei dati e utilizzare questi strumenti, che noi non avevamo mai visto». Anzi, a Torino avevamo giusto questi due esami di statistica che erano il terrore di tutti, perché se uno va a fare psicologia, una mentalità proprio matematico-scientifica forse non ce l’ha.
Quindi rimane tutto lo speco di risorse: quando io penso all’Italia, mi immagino una casa bellissima, di quelle rinascimentali per dire, con le finestre aperte di inverno; cioè con tutto lo sforzo che le persone fanno, i giovani soprattutto … io vedo anche i miei amici, fra loro non ho mai visto gente indolente, che non vuole fare cose… con tutto ciò c’è questa sensazione per cui ti sembra ti seminare sempre e non raccogliere mai. E questa è una cosa che qui in Canada, nonostante tutte le difficoltà dello stare qui, non si respira.
Ti interrompo un attimo: ripercorriamo le tappe che ti hanno portato ad essere a Montreal. Quindi, hai fatto l’Erasmus, che ti ha svelato un mondo nuovo, e poi sei tornata a Torino?
Sono tornata a Torino per concludere la mia tesi, dopodiché il mio primo passo da laureata in psicologia, due mesi dopo la laurea, è stato quello di iscrivermi ad un diploma che si chiama ispi, ovvero Istituto di Studi Politici Internazionali, perché iniziavo ad appassionarmi al mondo della cooperazione internazionale. Mi viene un po’ da ridere se ci penso, perché chi esce da psicologia normalmente si iscrive alla scuola di specialità preso dall’ansia del rendersi conto che non ha niente da fare nella società se non aggrapparsi ad un altro livello di studio; io invece non ne potevo più di teoria senza alcun tipo di applicazione. Chiamarmi psicologa senza aver mai visto nessun paziente in faccia, se non attraverso esperienze di volontariato che avevo fatto da ragazzina, non mi andava proprio. Mi iscrissi lì e il fatto di uscire da queste lezioni avendo delle competenze pratiche per me era fantastico: cioè, uscivo dalle lezioni sapendo qualcosa in più sul mondo, sulla politica, sulle leggi sui diritti umani eccetera. Quando conclusi questo diploma, chiesi a uno dei miei professori…
Scusa, ti interrompo di nuovo: si trattava di un master?
No, era un diploma, raggiunto attraverso una serie di corsi che si tenevano nel weekend, su argomenti che andavano dalle emergenze umanitarie a project management.
Quanto è durato?
Circa un annetto, anche se non mi ricordo esattamente perché le lezioni erano diradate nel tempo; non è che mi avesse dato delle competenze superpratiche, ma per me è stato un apprendimento non troppo all’italiana, con una parte interattiva, con dei role play – tipo,« immaginiamo di esser al congresso dell’ONU» eccetera – che da una parte era divertente, e dall’altra ti aiutava ad immaginarti in un certo ruolo. Per me è stata una finestra per capire se mi interessava un certo ambiente e se potevo puntare su questo prima di fare altri investimenti. Quindi, un giorno vado da un professore e gli dico: «sono l’unica del corso ad avere un background in scienze sociali – gli altri venivano infatti prevalentemente da economia, in particolare dalla Bocconi, e da legge –, posso giocare questa carta a mio vantaggio? Sai consigliarmi un posto dove farlo? Per una ragione di fortuna mi chiama qualche giorno dopo, dicendomi: «conosco queste persone che stanno cercando qualcuno per andare in Palestina». Allora, dopo una serie di telefonate mi intervistano e mi prendono, così qualche mese dopo sono andata in Palestina. Abitavo a Gerusalemme est e lavoravo come intern, quindi di certo non ho salvato il Middle East ecco, ma chiaramente è stata un’esperienza molto forte.
Per chi hai lavorato lì?
Ho lavorato per una piccola ong che purtroppo credo sia fallita per ragioni di budget, che sono di solito le ragioni che affossano il privato sociale italiano. Si chiama ics, Consorzio di Solidarietà Italiano, che al tempo era in partnership con il Centro Fanon, in cui io svolgevo il tirocinio, e in cui però, poiché ero appena entrata, curiosamente non ero venuta a conoscenza dell’esistenza di questi progetti all’estero. Il mio ruolo era quello tra fare da trade union tra queste diverse realtà e con un partner locale che stava a Ramallah e che si chiama trs, Torture Rehabilitation Centre. Era un po’ clinico, un po’ no. In Palestina sto tre mesi, poi non mi rinnovano il visto, quindi mi trovo più o meno in esilio in Giordania, dove sto un mese cercando di rientrare in Palestina, ma non c’è stato verso. La mia organizzazione stava organizzando una conferenza fra ong palestinesi ed israeliane per metter su un comitato di difesa dei diritti umani comune, e vista la situazione complessa, è stato per loro più facile incontrarsi in Giordania, un paese terzo, piuttosto che incontrarsi in Palestina o Israele, perché nessuno dei due poteva andare nei luoghi dell’altro.
Al che rimasi in Giordania un mese, cercando lavoro, ma non riuscii a infilarmi; la mia organizzazione nel frattempo – era il 2006 ed era finita la guerra in Libano – aveva messo su una piccola missione di distribuzione di relief items, e così mi proposi di andare io in Libano ed occuparmene. Feci questo viaggio assurdo, da sola, da Hamman attraverso Damasco fino a Beirut, dove stetti due settimane partecipando alla distribuzione di questi elementi di base per la sopravvivenza a circa 300 famiglie, come le bombole del gas eccetera. Poi torno in Italia, con la disperazione più totale perché non sapevo come trovare lavoro; pensavo che questa esperienza mi avesse dato qualche punto in più, ma facevo dei colloqui e non succedeva niente, o perché non avevo abbastanza esperienza o perché arrivavo nei posti in cui mi dicevano che non avevano abbastanza finanziamenti. Insomma…
Ma cercavi un lavoro sempre nell’ambito della cooperazione?
Sì. In quel momento volevo assolutamente ripartire. C’è da dire però che anche durante questa esperienza in Palestina non è che io fossi stipendiata, i soldi me li sono trovati, scrivendo un progetto per la Fondazione San Paolo, non come Livia Molino ma grazie al Centro Fanon. Ottenni il finanziamento e partii con questa sorta di fellowship, come si potrebbe chiamare.
Al mio ritorno in Italia, faccio colloqui, mando curricola in giro, ma non sapevo neanche bene come fare in questa fase; magari basta mandare dei cv online se però sono diretti al campo in cui gli psicologi lavorano normalmente, come per esempio quello delle comunità, in cui poi per anni devono fare gli educatori. Oppure normalmente gli studenti fanno la scuola di specialità lavorando in pizzeria perché non possono sostenere i costi terribili di questo istituto. Però se uno prova ad interfacciarsi con le ong, anche con quelle italiane che lavorano in un’ottica internazionale, bisogna saper scrivere la cover letter, farsi scrivere le lettere di raccomandazione da una serie di persone, eccetera. Sono cose di cui io – e lo dico con un po’ di vergogna visto che io allora non avevo diciotto anni, ma ventotto – non avevo idea, anche perché c’è tutto un processo di comunicazione che bisogna saper fare. Quindi sicuramente fra i motivi per i quali non riuscivo a trovare lavoro c’è anche il fatto che non mi presentavo nella maniera corretta. Ad un certo punto, trovo un’altra occasione di lavoro, all’italiana – dico all’italiana perché anche lì l’ho trovato in un modo strano – che non riguardava la cooperazione, ma una campagna di comunicazione sociale a Torino. È chiaro che io cercavo lavoro in un campo in cui soldi non ce ne sono, il privato sociale, e lavorare in questo settore è complicatissimo perché, anche quando le associazioni non dipendono dalla chiesa, vige un po’ questa logica catto, un po’ caritatevole, per cui se tu ti presenti e dici: «io ho ventotto anni, non voglio esser mantenuta da mamma e papà, ma vorrei lavorare e ricevere dei soldi», allora ti viene risposto: « ma come, allora non vuoi lavorare per la causa, sei venale». Per cui uno cade in questo loop per cui se vuoi lavorare in questo settore è difficile ricavarci uno stipendio: o i soldi non ci sono o se li tengono per sé. E uno non è che può sempre lavorare gratis, anzi di solito si fanno tre lavori, due non pagati e uno sì, di solito quello di cui non te ne frega niente: io ad esempio mi sono messa a fare delle traduzioni, all’epoca non ne avevo neanche le competenze, per riuscire a mantenermi le altre cose. Di conseguenza uno poi deve fare i salti mortali, perché il lavoro nel privato sociale non è riconosciuto: le onlus, queste mille onlus, sono un po’ come i partiti politici. Si disgregano perché la gente se ne va da quelle più grosse pensando:« così adesso sarò io il capo di me stesso», e così sono tutte frammentate tra di loro, ve ne sono tante che fanno la stessa cosa o che sono troppo piccole per avere un impatto reale. Arrivo tramite un amico a contattare una onlus che aveva dei progetti in Africa, stavano cercano qualcuno. Allora avevano due progetti, uno in Mali e uno in Burkina Faso, sulla malnutrizione infantile: mi presento e la responsabile mi dice che hanno bisogno di una persona sul campo, anche per fare una raccolta dati, e che avevano ricevuto i fondi dalla regione Piemonte. Io avevo ancora questa voglia assoluta di fare Indiana Jones e quindi ci andai. La cosa divertente era che i progetti erano in Mali e Burkina Faso, quindi bisognava sapere il francese, e io non lo sapevo, avevo solo qualche reminescenza remota delle medie, forse sufficiente ad ordinare al ristorante. Ho pensato che dovevo comunque giocarmi questa carta, pensando che tanto se avessi detto «devo andare in Mali», non ci sarei andata prima di sei mesi. Così ho mentito spudoratamente dicendo che sapevo il francese, e mi sono iscritta a corsi di francese e trovato il salvatore che mi fa lezione due volte alla settimana a casa sua e compie il miracolo di iniettarmi un po’ di francese. Parto per il Mali, dove sono stata circa due anni, con due missioni sempre di questa associazione che si chiama Aspic. Il primo progetto in Mali durava all’incirca un anno, ma io sono arrivata praticamene alla fine, per cui c’erano una parte di implementazione e una di valutazione da fare. Anche quella è stata per me un’esperienza molto forte e molto bella, e certo più consistente lavorativamente, ma anche sul piano personale, di quella in Palestina. Al mio ritorno dovevo andare in Mali una terza volta, ma la mia capa mi chiama e mi dice che non ha più soldi per pagarmi: « ti devo interrompere adesso il contratto, anche se doveva durare dodici mesi». E si stupì anche del mio risentimento. Vedi, questo è normale nel mondo del privato sociale, in gran parte gestito da persone che hanno terminato la loro carriera professionale e che non vogliono restare a casa a fare i pensionati – cosa che va pure bene – però non va bene che abbiano un ciclo per cui loro non hanno bisogno di uno stipendio per vivere, mentre le persone che ingaggiano sì. Quindi, insomma, due mesi di stipendio, per altro neanche così lauto, a me faceva la differenza. Perché immaginati la società italiana di cinque anni fa, che non era prospera già allora, e io ero senza una laurea in economia e commercio, con cui un lavoro lo trovi sempre bene o male… non solo mi diceva che non sarebbe partito il uovo progetto, ma anche che avrei dovuto interrompere quello attuale e finire due mesi prima. A quel punto ho raggiunto il massimo livello di scoramento. Iniziai a cercare lavoro nuovamente e incappai in una serie di ricerche online nell’università McGill di Montreal, in cui in realtà io volevo venire da molti anni perché c’è un dipartimento di Transcultural Psychiatry di cui ero venuta a conoscenza lavorando al Centro Fanon a Torino, che ha lo stesso orientamento clinico e di ricerca. Volevo venire a vedere cosa facevano qui. Così quell’anno, nella totale assenza di idee, dico: « il vantaggio di non avere un lavoro è che puoi partire», e spendo tutti i soldi che ho da parte, pochissimi, per questa summer school. Mi è sembrato di fare una puntata al casinò, di scegliere il rosso e puntare su questo.
Così nel 2009 sono venuta a Montreal per questa Summer School e non avevo alcuna intenzione di trasferirmi qui, ma da tempo avevo la fantasia di un dottorato, non perché la mia personalità sia particolarmente da accademica, ma perché il dottorato mi sembrava la giusta equazione tra una certa libertà di movimento nel lavoro e la possibilità di studiare e sviluppare un progetto di ricerca mio. Arrivo qui e ho un’impressione del luogo, come molti migranti, del tutto falsata: mi sembrava tutto meraviglioso, super avanzato, i professori fantastici; e qui c’è questa divisione fra anglofoni e francofoni e mi sembrava una società in cui tutto comunicava in maniera armonica, senza tensioni sociali eccetera. La summer school durava un mese, e io mi sono fatta tutti i corsi possibili, già che ero qui: mi piaceva molto l’idea di trovarmi in un contesto multiculturale, con persone che provenivano da ogni luogo, ogni nazione e ogni età: se in Italia esiste questa cosa per cui ci dobbiamo trascinare addosso le scelte per tutta la vita… Per cui ancora oggi mio padre mi dice:« ho visto i concorsi per psicologi all’ASL», e io rido perché cosa ne so io di psicologia, cioè ho una laurea, ma poi sono andata in tutt’altra direzione, non ho le competenze per fare la psicologa clinica perché non mi sono mai specializzata… Ecco in Italia c’è questa mentalità un po’ conservatrice, per cui se uno ha fatto una scelta poi non la può cambiare, per cui se tu hai trenta quaranta anni o anche cinquanta e hai fatto queste cose durante la tua vita, non puoi fare nient’altro. E invece mi ritrovo in queste classi in cui ci sono persone che vengono da tutte le parti del mondo e hanno le professionalità più diverse, non solo psicologi che vengono dal campo TP, ma anche persone che vogliono approfondire l’argomento: andavano da mid-twenties a cinquant’anni, la maggior parte giovani ma non giovanissimi, e c’erano anche dei professionisti che volevano approfondire qualcosa di cui avevano solo sentito parlare o conoscere qualcosa di nuovo. Parlare con l’insegnante di ricerca qualitativa, che era la cosa che mi interessava di più, mi fece capire che stavo iniziando a fare in modo di restare. Lei mi disse che aveva appena ricevuto un grant per un progetto e che aveva bisogno di due persone, fra cui uno che fosse uno studente, e io allora iniziai a informarmi su come potevo fare per un dottorato. C’era la difficoltà che io avevo il vecchio ordinamento e che qui non sanno come classificarlo, invece il «3+2» sanno come classificarlo e quindi ti fanno accedere al dottorato. Quindi io dopo un mese e mezzo lì, me ne vengo via con l’idea di fare un master alla McGill University: questa insegnante mi disse che aveva fatto domanda per il grant per un progetto di ricerca partecipativa sul tema della prevenzione dell’HIV in Burundi, e la persona che si sarebbe occupata del progetto avrebbe passato metà del tempo a Montreal e metà in Burundi. Quando mi fece leggere il progetto, io iniziai a pensare: «sono io la persona che cercano, vengo dall’Africa, la mia idea di ricerca che già mi frullava in testa quando ero in Mali è assolutamente complementare». Così chiesi all’insegnate come potevo fare per partecipare, e lei mi dice: «devi diventare una studentessa, se no io non ti posso assumere». Torno in Italia e faccio domanda all’università di Montreal, cover letter e tutto quanto; questo era d’estate. Intanto la professoressa mi dice che non ha ottenuto il grant per il progetto ma che, avendo ricevuto ottimi commenti, lo avrebbero finanziato in qualche modo. Io non volevo sentire questo campanello d’allarme, per cui mi butto a braccia aperte in questa cosa, nell’application. Ci sarebbe voluto qualche mese per avere una risposta dall’Università ma io mi sentivo in un limbo. Non volevo di nuovo occuparmi di cercare lavoro, in quel periodo stavo peraltro anche cambiando casa: Torino mi richiedeva di investire le mie energie per mettere radici lì, perché non è che uno cerca lavoro e lo trova subito, e poi avevo bisogno di qualcosa come tampone per tenermi libera qualora dal Canada fossero arrivate notizie. Però poi mi sono detta: «qui bisogna andare: è inutile che io investa un po’ qui e un po’ laggiù, non ha senso». Così sono partita prima di avere la risposta dalla McGill e…I hoped for the best. Arrivo ad ottobre, non conoscevo quasi nessuno, a parte due persone che avevo incontrato durante la summer school. A dicembre arriva la risposta della Mc Guill: vissi quei due mesi come una specie di vacanza, e poi a gennaio cominciai questo master, che è durato un anno e mezzo.
Come te lo sei finanziato?
Ehm, vendendo gli organi interni…No, scherzo. La mia capa, diciamo così, e supervisor, mi ha detto che potevo ottenere una borsa di studio dallo stato, è così che gli studenti imparano a scrivere grant da subito per loro stessi. Il Canada è federale, quindi lo studente può richiedere sia le borse provinciali che quelle statali, che sono molto competitive ma, nonostante ciò, tutte le persone del mio circolo ne hanno vinta una almeno una volta. Sono borse consistenti: conosco anche un paio di francesi che ora vivono qui da un po’ di tempo e che sono venuti per master e dottorati, che hanno all’incirca la mia età, trentacinque anni, e che hanno ottenuto la borse di studio più prestigiosa, la Venier, che sono circa 50.000 dollari canadesi l’anno (praticamente equivalenti ai dollari americani), 35.000 euro all’incirca.
Eh sì, borse sostanziose…
Quella è la più prestigiosa, ma diciamo che anche le borse più sfigate, sono comunque sostanziose, e prevedono che con quei soldi lì tu ti finanzi anche un progetto di ricerca. Di solito, ci sono una parte dei soldi che sono tuoi, poi una parte che serve a finanziare il tuo progetto o i materiali (una mia amica ad esempio ne ha ricevuta una nel campo dell’arte, e a lei è servita anche per ripagarsi i materiali), e una terza parte sono da utilizzare per comprare computer e cose simili. Insomma, devi giustificare le spese ripartendole così. Queste borse durano tre anni. Se tu non finisci il dottorato, non devi restituire questi soldi. Io no ho potuto partecipare perché sia per le borse provinciali che per quelle statali devi essere un permanent resident, il livello precedente alla cittadinanza.
Quindi, come hai fatto?
Quindi la mia supervisor mi ha assunta come assistente di ricerca con uno stipendio annuale, che normalmente per un master student può andare da 15.000 dollari l’anno a un massimo di 20.000, che è quello che lei ha dato a me. Gli studenti di dottorato che non ricevono la borsa di studio possono chiedere al loro professore, perché talvolta i professori hanno dei fondi loro e possono pagare lo studente se insegna al loro posto o fa l’assistente di ricerca. Arrivando dall’Italia, a me 20.000 dollari l’anno mi sembravano un’enormità, sempre per lo sbarramento dei 1000 euro al mese che abbiamo in testa, quantomeno a Torino. Sembrava fantastico avere tutti i mesi uno stipendio per studiare e lavorare, mi sembrava una cosa fighissima.
E invece? Perché parli al passato?
No, lo è stato. Ciò che ha reso tutto il mio percorso qui più difficile è stato il fatto che il progetto per cui io sono venuta non si è mai realizzato perché la mia supervisor non ha ottenuto i soldi, neanche alla seconda presentazione del progetto. Ad un certo punto mi ha detto: «bisogna che ti finanzi da sola». Ma io non potevo pagare la retta universitaria e la mia vita là. Lei mi disse che mi poteva pagare solo per i progetti che aveva in corso, che erano progetti che non c’entravano niente con me, con il mio percorso e il mio background. Riguardavano la valutazione della politica sanitaria in Quebec, in particolare l’allattamento materno. A me non ne poteva fregare niente, per cui per me è stata un po’ una tragedia. Dal mio sogno americano di lavorare sugli argomenti della mia vita all’occuparmi di allattamento materno, mi sembrava terribile. Da lì la mia permanenza qui ha preso una piega un po’ inaspettata, perché fino a quel momento io non mi ero confrontata con le difficoltà della mia scelta ma solo con l’aspetto ideale. Poi è cominciata la discesa nella realtà, e la realtà era che se avessi avuto un figlio o un nipote gli avrei detto: «fai attenzione alle tue scelte, mantieni i piedi per terra perché il mondo ideale non esiste da nessuna parte». Credo che sia una cosa che i migranti non considerano, un po’ come quando nel film il Nuovo Mondo i migranti che sono sulla nave immaginano queste patate e queste carote giganti che c’erano in America; mi sembra che sia un po’ rimasta anche nell’immaginario collettivo, questa idea.
Spiegami un attimo: dal punto di vista pratico, tu hai continuato a fare il tuo master, che durava quanto?
Due anni, in realtà due e mezzo: l’ho incominciato ufficialmente nel gennaio 2010 e doveva finire nel gennaio 2012 ma è durato di più, anche perché il progetto stesso ha richiesto una estensione e di conseguenza anche la tesi è slittata, l’ho consegnata ad agosto del 2012. Ci sono cinque tappe per la tesi, non c’è la discussione finale: consegni la tesi; poi ti arrivano le revisioni di un external examiner con i suggerimenti di cambiamento; fai i cambiamenti e rispedisci la tesi, ( io l’ho fatto a dicembre); poi la tesi finale si presenta durante la cerimonia di graduation (a maggio).
Però non ho capito, tu continuavi a lavorare come assistente di ricerca durante il master?
Sì, ma qui ci sono dei limiti di ore, cioè se sei uno studente non puoi lavorare più di dieci ore a settimana, in modo da evitare che i professori strasfruttino gli studenti. Ovviamente questa regola non la rispetta nessuno, per cui anche qui gli studenti sono sfruttati. Io anche, in un certo senso, perché a questa persona faceva comodo che io avessi tutta la mia bella istruzione; in più il progetto si svolgeva un po’ dappertutto nella provincia del Quebec. Io dovevo fare delle interviste un po’ dovunque a professionisti nel campo della salute – dottori, manager, infermiere eccetera – sulla politica sanitaria, condurre focus groups e intervistare madri che avevano avuto dei figli da poco e che potevano dirmi le loro impressioni sui servizi che ricevevano. Non erano interviste individuali ma focus groups, che io moderavo, sia in inglese che in francese; questo per me era interessante, perché questa dualità quotidiana fra mondo anglofono e francofono è la cosa che ritengo più interessante qui,
Dualità linguistica?
Linguistica, ma anche culturale, architettonica eccetera. Parlando coi miei amici di New York, loro mi dicono: «ma è normale, anche qui c’è gente che arriva da tutto il mondo». Ma è diverso: lì chi non è americano o non parla inglese è un’eccezione, qui invece deve essere tutto perennemente in inglese e francese. Da migrante, a me personalmente fa sentire meno sola, perché non c’è un solo modello di riferimento ma ce ne sono due diversi, oltre naturalmente alla comunità di amici, e alla comunità dei migranti e a tuoi modelli personali. L’esistenza di questi due modelli cambia la questione dell’integrazione.
Ho fatto quindi questo lavoro per due anni, e nel frattempo il mio ruolo è un po’ cresciuto perché la mia supervisor, una delle due, è rimasta incinta ed è andata via per la maternità, quindi anche io ho un po’ coordinato le ricerche. Poi siamo giunte alla fase dell’analisi dei dati, che erano molti, moltissimi, e io avevo bisogno di lavorare più intensamente, così ho iniziato a lavorare delle ore extra perché mi interessavano i risultati. Quando mi hanno dato 20.000 dollari l’anno a me sembravano tantissimi, ma non lo sono, perché la vita qui è cara, anche se gli affitti non lo sono, sono come a Torino. Prendere un aperitivo ti costa una cosa come trenta euro, ecco. Per quanto sia stato difficile riorientare a lungo termine il mio progetto iniziale, ho sentito davvero di aver imparato delle cose facendole, non imparandole su un libro. Frequentare i corsi qui vuol dire che sei seduto in classe e hai un rapporto quasi paritario con l’insegnate, devi leggere articoli in continuazione e fare commenti in continuazione, che culturalmente è un po’ strano perché in Italia abbiamo il valore opposto: lo studente deve ascoltare silenzioso il “Vate” che parla, sostanzialmente (ride). Qui no, gli studenti si mettevano sempre in mostra, e io non la facevo mai questa cosa, ma poi ho iniziato a farla perché mi sono resa conto che altrimenti mi categorizzavano come una che non era interessata e non voleva partecipare. Questo aspetto del dover produrre sempre c’è: alla fine dei corsi bisogna scrivere un saggio o un progetto. Questo per me è stata una tragedia perché non l’avevo mai fatto, in più in inglese. Mi rendevo conto che era una bella sfida che avevo scelto, mi sentivo anche scema perché non riuscivo a lasciar perdere l’aspetto «infantilizzante» del dover ricominciare tutto da capo, cioè a volte mi dicevo: « ma guarda te se a trent’anni devo ancora avere queste difficoltà».
Scusa se ti interrompo, volevo arrivare al presente: al momento, il master si è concluso e tu cosa sei al momento? Che prospettive hai?
Ho continuato a lavorare a questo progetto come coordinatrice fino a gennaio 2012, dopodiché la mia supervisora non aveva più soldi per pagarmi e va bè, sapevo che il progetto era di due anni, anche se poi anche lei ha fatto dei tentennamenti; insomma, gli esser umani sono esseri umani dappertutto. Io intanto dovevo scrivere la tesi e in quei mesi volevo fare solo quello. Dopo due mesi ho trovato due collaborazioni attraverso il network dell’università: ho fatto come consulente esattamente quello che avevo imparato a fare nei due anni precedenti. Ho lavorato con l’università anglofona canadese, il Manitoba, e con l’università di Sherbrooke del Quebec: erano due progetti che non c’entravano nulla l’uno con l’altro, ma semplicemente due persone mi hanno detto allo stesso tempo che cercavano qualcuno. Dovevo fare il cosing di interviste qualitative e fare una prima fase di analisi dei dati: quelli di Manitoba riguardavano delle interviste sulle malattie mentali delle popolazioni aborigene, dette qui first nation, le cui condizioni sono gravissime ˗˗ il tasso di suicidi è alto e vi sono numerosi problemi sociali. Questo progetto si concentrava sulla salute mentale e sui fattori di rischio pre-suicidio con l’idea di cercare di sviluppare raccomandazioni per il policy making. L’altro era invece sulla promozione della salute, per correggere l’obesità tra gli adolescenti: una botta di autostima è stata il fatto che il mio ruolo è un po’ cresciuto. Con il progetto dell’università Manitoba dopo la fase del coding ho scritto dei summary e ho coordinato un’altra persona che non aveva esperienza di analisi qualitativa; poi ho fatto un primo livello di analisi e tra oggi e domani concludo il rapporto.
Ah, quindi attualmente stai ancora lavorando a questi progetti. Che forma contrattuale hai?
Funziona che anche qui ti sfruttano, per cui io ho ancora uno status di studente: in realtà per lavorare fuori dal campus hai bisogno di un altro permesso di lavoro, che io ho, si chiama work permit of campus, e mi permette di lavorare con altre due università esterne. Queste mi hanno assunta come una studentessa, questo vuol dire che hanno meno costi, io vengo tassata una cosa come il 20% e non ho nessun particolare diritto. Tipo, qui, nonostante che il sistema sanitario sia gratuito come in Italia, quando vieni assunta come lavoratrice in posti seri hai dei benefit, come il rimborso per il dental care eccetera. Io queste cose non le ho. Vengo pagata all’ora. La cosa interessante è che l’università francofona mi paga, per un progetto anche meno impegnativo, molto di più dell’altra, immagino perché hanno più risorse.
Ecco, come sei assicurata contro le malattie?
Se non sei registrato come permanent resident hai un’assicurazione privata, ad esempio io ce l’ho con la McGill, che fa migliaia di assicurazioni l’anno. Hanno queste convenzioni quindi il prezzo è inferiorie.
La paghi mensilmente?
No la paghi tutta in una volta e sono circa 700 dollari l’anno, mi sembra.
Ha dei massimali? Come funziona?
La questione dei massimali non la so; però hai anche dei rimborsi, ad esempio per le cure dentistiche.
Tipo, se hai un’appendicite ti copre tutte le cure?
Sì assolutamente. Io ho avuto anche problemi di salute e ho dovuto fare degli esami: vai lì, dai la tua tessera sanitaria, finisci e non paghi un soldo. Una serie di cure mediche sono rimborsate: osteopata, fisioterapia, psicoterapia.
Ma il sistema sanitario canadese è privato o pubblico-privato?
L’organizzazione è provinciale, per cui qui in Quebec dove c’è un’organizzazione politica un po’ più socialista, è free, per cui io ho preso un’assicurazione privata perché non sono ancora landed immigrant.
Ah, ho capito: da quando lo diventi è come se avessi la mutua, praticamente.
Esatto, io adesso sono in un momento di transizione perché i miei permessi sono ancora validi, ma siccome ho studiato e lavorato in Canada ho il diritto ad ottenere un permesso di lavoro della stessa durata del mio master, per cui per me sarà dai due anni e mezzo ai tre, e io ne ho diritto anche qualora non riceva un’offerta di lavoro.
Anche da disoccupata, insomma?
Sì, sì sì, per il solo fatto che ho conseguito una laurea qui.
E’ questa forma di visto si può a sua volta trasformare in un’altra forma di visto?
Adesso ho rimandato di fare domanda per diventare landed immigrant, il che vorrebbe dire avere tutti gli stessi diritti dei canadesi tranne il diritto di voto; lo puoi essere anche per sempre. Ad esempio, dei miei amici che vengono da paesi che non permettono la doppia cittadinanza, ce l’hanno, e l’unico caso in cui puoi perdere questo stato è se vivi fuori dal Canada per più di due anni consecutivi.
E perché tu hai deciso di non farlo prima?
Non l’ho fatto perché durante il mio percorso di studi non potevo farlo, o lo facevo prima di partire dall’Italia.. Ma per me i tempi sono stati così ridotti! Insomma, sono venuta qua tre mesi, ho scoperto com’era il Canada, poi mi ci sono trasferita…Avrei potuto farlo un anno prima di finire il mio master, ma non l’ho fatto un po’ per ragioni economiche – costa 2000 dollari – e un po’ anche per ragioni emotive, di ambivalenza terribile. Anche se i miei amici che sono qui mi hanno tutti consigliato di farlo al di là della mia decisione di rimanere qui o no, per me l’idea di fare questo passo sembra a livello emotivo come decidere di stare qui.
Questa è la grande domanda da un milione di dollari: quali sono le tue prospettive? Rimanere o tornare in Italia?
Credo che i miei sentimenti riguardo allo stare qui siano cambiati fortemente negli ultimi sei mesi: sono venuta in Italia quest’estate e per la prima volta da tre anni (sono sempre tornata tantissimo in Italia, due volte l’anno) ero contenta di ritornare a casa mia, e per me questo significava tornare qui. Tornare in Italia è difficile, mi rende emotiva, anche perché è un po’ complicato trovare l’equilibrio tra il vedere parenti, amici ed eventuali relazioni che si mantengono anche a distanza, il desiderio di vacanza e il bisogno di tempo per me. Perché io che ho sempre amato molto viaggiare, da quando sono qui ho sostanzialmente smesso, perché ogni tempo libero e ogni soldo viene investito per tornare in Italia, dove tra l’altro è tutt’altro che una vacanza perché, come dice un’amica di qui, anche lei italiana, è come essere in missione diplomatica, devi aver un’agenda per amici e parenti eccetera.
Ti faccio delle domande anagrafiche che non ti ho posto prima: sei sposata?
No.
Hai figli?
No.
Convivi?
No.
Ok, perfetto, puoi continuare, scusa. Stavi dicendo che finalmente sentivi un po’ il Canada come casa tua.
Sì, allora. Passati i primi sei mesi dal mio arrivo qui, dall’ultima volta che sono stata in Italia…A me non è che piacesse poi tanto stare qui i primi due anni. Il primo anno è stato terribile, il secondo difficile ma meglio, e con il terzo, adesso, inizio a sentirmi più a mio agio. Per tante cose: la vita in Nord America è molto distante da me come personalità, interessi, ritmi, tipi di interazione sociale, sia come clima. Non dimentichiamoci che in questo momento mi trovo a meno venti gradi e ho passato due settimane a meno quaranta. Ti giuro, quelli di qua escono a fare jogging a meno quaranta, e fanno sci di fondo e sono felici, mentre io a malapena vado a prendere il pane, per quanto mi sia abituata con il tempo ad uscire e mi sia comprata delle scarpe terribili con le quali mai verrei in Italia, e la giacca da spedizione nordica. Ci sono anche questi aspetti un po’ frivoli di perdita dell’identità…
Dal punto di vista del fashion vuoi dire?
Saranno delle cazzate, cioè certamente tu dici: «non saranno mica un paio di scarpe e una giacca a costruire la mia identità», però questa situazione fa anche sì che ti guardi allo specchio e ti vedi diversa da come ti sei sempre vista o fai delle cose che non avresti mai fatto. Non ti senti a tuo agio a presentarti al mondo con una certa immagine perché non sei abituato, però anche il criterio di scelta della tua immagine ad un certo punto sei costretto a cambiarlo.
Altri aspetti dell’Italia che ti mancano? Quali sono le difficoltà che hai incontrato in Canada? Parlo degli aspetti culturali o lavorativi.
Le difficoltà del lavoro sono state tutte positive, di grande crescita: in questo senso penso di aver fatto una scelta giusta, anche se ci sono stati dei momenti in cui mi sentivo come Karatè Kid – metti la cera, togli la cera – e continuo a sentirmi così, però adesso mi sento più tranquilla, non mi sento nella disperazione nella quale mi sentirei se io fossi in Italia in questo momento, anche se sto cercando lavoro e non so esattamente cosa farò.
Quindi al momento non hai intenzione di tornare in Italia: solo nel futuro immediato oppure ti vedi anche nel medio termine in Canada?
Con difficoltà mi vedo a stare qui tutta la vita, e credo che anche quelli che ci sono stati non se lo fossero immaginato, però non riesco neanche a immaginarmi un ritorno in Italia, almeno certo non per quanto riguarda quest’anno, per due ragioni: la prima è che quando guardo l’Italia, mi sembra che sia ancora peggio di quando sono partita e io, che mi sto costruendo sempre più un’identità professionale di nicchia, in Italia non saprei neanche da dove partire per cercare lavoro. E poi devo ammettere che non sarei pronta a ritornare. Ho iniziato da qualche mese a cercare lavoro: ho ancora le fantasia infantile di lavorare per organizzazioni come Amnesty International o Human Right Watch che fino a qualche anno fa mi sembravano impossibili e adesso si avvicinano un po’ di più, magari si potrebbero raggiungere con un anno di ricerca in più, non mi sembra più una cosa così assurda. Guardavo delle vacancies per due lavori fighi per i quali mi sentivo anche competente, uno di questi era basato a New York e uno a Londra: ecco lì ho avuto un momento di panico e mi sono detta che non ero pronta ad andare via di qui adesso. Nei primi due anni avrei pagato oro per andarmene, ma adesso non sono pronta. Lo dico per scherzo, però è una realtà profonda: non me ne vado da questo paese finché non mi ridà qualcosa indietro. Non mi vedo quindi a tornare in Italia, e poi non saprei dove. Sono molto attaccata a Torino, è casa mia anche se non ci vivo più da tempo, ma troverei difficile tornare a vivere in una quotidianità di monocultura. Qui passo la mia giornata quotidiana in tre lingue diverse, non è solo una cosa linguistica: se parli in inglese con gli anglofoni parli con una cultura, quando parli con i francofoni o con gli amici italiani anche. Questo è l’aspetto che preferisco della mia vita qui, e in Italia mi manca anche linguisticamente. Anche a me succede questa cosa per cui quando torno devo cercare le parole oppure, se mi chiedono dettagli del mio lavoro, faccio fatica a spiegarli in italiano, ci devo proprio pensare perché mi viene automatico in inglese o in francese. Un po’ come quando qui mi chiedono il numero di telefono in italiano e io ci devo pensare, mentre in inglese o francese mi verrebbe fuori la solita cantilena a cui sono abituata.
Quando sei arrivata in Canada ti sei iscritta all’Aire?
No.
Ora sei iscritta all’Aire?
No. Sempre una ragione emotiva: stupidamente uno vuole mantenere ancora un po’ di attaccamento, c’è questa cosa per cui uno dice se ti iscrivi all’Aire perdi diritti in Italia…
Ma tu sei ancora residente in Italia? A Torino?
A Villafranca d’Asti, a casa dei miei (ride).
Quindi per le statistiche italiane non risulti all’estero e in più per il Canada risulti residente là?
E, come me, la maggior parte degli italiani che io conosco, che non sono iscritti all’Aire. Per cui non so cosa calcolano quando fanno questi calcoli sulla fuga dei cervelli – e mi viene da ridere a sentirmi chiamare così – molti italiani che conosco non sono iscritti all’aire.
Noi per ovviare a questo nella ricerca facciamo un paragone tra i dati dell’Aire e dell’Istat e quelli dei servizi statistici nazionali dei paesi di destinazione, di conseguenza ad esempio ho trovato i dati della Germania, dell’Inghilterra eccetera. Per il Canada ho fatto domanda all’istituto statistico ma mi hanno mandato solamente qualche dato, senza gli inflows di italiani annuali. Il caso del Canada è un casino perché devo capire se fare riferimento ai visti, ma i visti vengono poi rinnovati e si rischia di prendere in considerazione le stesse persone. Se ti viene in mente un’idea su dove poter trovare i dati sugli italiani residenti lì… Tu risulti residente in Canada?
Sì.
Ecco, se si vogliono trovare i dati sugli italiani arrivati negli ultimi cinque anni gli unici che possono saperlo sono le autorità lì, ma non so quali. Il Ministero di Pubblica Sicurezza? È complesso. Per ora lo facciamo a livello globale, è una gran mole di dati. Di solito poi solo il 50% degli italiani si iscrive all’Aire.
Quindi tu non ti sei iscritta all’Aire perché, ad esempio, hai paura di perdere la mutua in Italia eccetera?
Sì, poi anche un po’ perché uno se lo dimentica, sono quelle leggerezze che non dovresti lasciarti scappare, ma poi alla fine lo fai. Ci vuole un po’ tempo prima che uno dica: « va bene, ora vivo qui, sotto tutti punti di vista».
Si, è chiarissimo. Se non sbaglio comunque non c’erano elezioni a cui avesti potuto partecipare in questi ultimi tre anni…
No, ci sono state solo le regionali in Piemonte.
Ma a quelle non avresti potuto partecipare neanche se iscritta all’Aire.
No, certo. L’unica elezione che mi perdo è questa, e mi fa proprio girare le palle. Ho chiesto informazioni in consolato perché mi sarei iscritta all’Aire per poter votare. Mi hanno detto che era troppo tardi.
Quando hai fatto richiesta?
Non ricordo se prima di andare in Italia, prima del 31 gennaio, o ai primi di gennaio quando sono tornata qui; il problema però non era neanche quello, ma il fatto che i miei visti ora in corso scadono il 31 marzo, mentre l’Aire per farti iscrivere vuole dei visti validi per almeno dodici mesi, così mi hanno detto.
Io ho avuto i permessi in regola per iscrivermi, però adesso che sono in scadenza non posso. Però c’è un’altra questione che mi fa girare le scatole, e per cui l’Aire andrebbe rivista, mette insieme «italiani» del tutto diversi. Cioè, degli italiani all’estero non gliene frega niente a nessuno e da un certo punto di vista può anche essere giusto, ma adesso l’Italia si sta confrontando con una diaspora diversa. In questi giorni qui io sono in forte fermento elettorale, seguo molto la politica italiana e quindi mi dispiace non poter far parte di ciò che succede in Italia. Ne parlo con i calabresi del bar di fianco, con degli italocanadesi che lavorano dove lavoro io, che sono considerati cittadini italiani, e chiedo loro: «votate?». Nella maggior parte dei casi mi dicono: « no, mi sono arrivate le schede a casa ma non so chi votare, devo chiedere a mia zia a Roma e farmi consigliare». Ce ne sono altri che non hanno fatto richiesta di cittadinanza italiana. Non voglio essere razzista, ma hanno quest’idea a volte un po’ nostalgica e romanticizzata dell’Italia passata dai genitori; oppure la vivono con rifiuto, perché hanno il ruolo di «zii d’America», per cui quando tornano in Italia si pensa che debbano pagare per tutti, e a volte non tornano proprio per questa ragione. Un po’ come i marocchini che vivono in Italia, che sanno di doversi svenare e pagare per tutti se tornano in Marocco. Qui i figli degli italiani sono molto distanti dalle tradizioni italiane e non hanno nessuna coscienza politica.
Per cui diciamo che tu non ti iscrivi all’Aire anche un po’ per protesta?
Esatto, perché questa cosa del metter tutti insieme non è ammissibile.
Prima dell’intervista mi accennavi che qualcuno ti aveva dato la sua scheda elettorale.
Sì, quando io ho capito che non avrei potuto votare, mi sono detta: « non posso accettare questa cosa». Quindi ho cercato di venire in Italia, cercando tutte le informazioni necessarie su rimborsi eccetera, che non esistono. Ci sono rimborsi solo per gli italiani in Europa, ma noi che stiamo fuori dall’Europa siamo per caso meno italiani di loro? Comunque…a quel punto il mio cervello italiano è entrato in moto e mi sono detta sempre scherzando: «intercetto qualcuno della comunità italiana che non vota perché non sa chi votare o perché non legge neanche in Italiano, e voto io al suo posto. Del tipo, il diritto non me lo danno, e io me lo prendo. Così un giorno al lavoro con una delle ragazze faccio questo discorso per scherzare e vedo che lei diventa seria, e allora anche io divento seria e le dico: «se tu decidi di non votare e butteresti comunque la tua scheda, dammela e voto io».
Ora che ci penso, è un reato.
Lo so. E’ andata così comunque. Spesso e volentieri ci si rende conto dei propri diritti solo quando vengono negati o quando le condizioni non permettono di esercitarli.
Curiosamente negli scambi attivi grazie alle comunicazioni virtuali che caratterizzano la vita di così tanti oggi, trasversalmente e in maniera intergenerazionale (quanti genitori si sono «auto-educati» rispetto all'uso della tecnologia di base per comunicare con i figli in giro per mondo?) anche i diritti possono per così dire essere interscambiabili o riciclati (d'altra parte siamo in crisi no? dunque ricicliamo! ri-usiamo!). Per esempio, una persona nauseata può decidere di rinunciare ai suoi diritti di voto, ed un'altra che non ce li ha può "raccoglierli"! Questo è stato lo stato lo scambio tra me e mio padre (tendenzialmente elettore di centro-destra, anche se almeno mi ha sempre giurato di non aver direttamente votato Berlusconi…): lui ha deciso non andare a votare, per cui io raccoglierò «per procura e conto terzi» il diritto a me burocraticamente negato e lui voterà per me! La cosa divertente è che per la prima volta voterà – seppur come dicevo per conto terzi – molto, molto a sinistra! [Vota due volte, sostanzialmente]
Ma la persona che ti ha dato la scheda elettorale in Canada era lì da tanto?
Era una seconda generazione, tra l’altro l’italiano lo parla, è andata in vacanza in Italia eccetera. Cioè, è diversa da altri che non parlano proprio l’italiano e non vogliono sapere nulla dell’Italia.
Ma poi mi hai raccontato di tue conoscenze che hanno votato più volte.
Sì, si tratta di un’italiana con doppia cittadinanza che ha votato sei volte; ha fatto una doppia diaspora, prima è andata in Italia dopo il crack finanziario del Canada, poi dopo un decennio ha fatto il percorso inverso tornando a casa sua dove le condizioni non sono floride ma migliori di quando è partita.
Interessante: un’oriunda che poi diventa nuova mobile.
Sì, e lei ha votato sei volte, immagino più o meno nella mia stessa modalità: amici e parenti le avranno detto la stessa cosa che mi disse la mia collega italiana. Ma io immagino se mi avessero chiesto di votare qui…io ho difficoltà a seguire la politica locale, è di una noia mortale e, abituata a un presidente puttaniere, corrotto e criminale, a leggere i giornali qua uno si addormenta. Per cui effettivamente coloro che non votano perché non sanno cosa votare e lo ammettono, sono onesti, perché votare è una cosa seria. Che io sia portata a commettere un reato per votare mi fa ridere, quasi quasi potrei dirlo pubblicamente, anche se prima dovrei informarmi su quali sono le conseguenze.
Credo sia penale.
Ecco. Però la cosa interessante è che come l’ho fatta io questa cosa, con questa modalità di scambio diciamo amichevole, mi immagino quale tipo di organizzazione dietro ci può essere; qui c’è una mafia italiana di quella che si vede nei film, già solo le facce che hanno questi qua che si candidano (per non parlare dei rappresentanti degli italiani), sembrano usciti dai film di Scorsese. Un po’ di anni fa hanno ammazzato il capo mafia siciliana dentro casa, poi c’è stata una faida tra siciliani e calabresi e hanno dato fuoco alle pizzerie. Una mafia vecchio stampo, neanche in Italia ha più quella modalità lì. Quindi io mi immagino che come ingenuamente io ho votato in questo modo, ci devono essere degli scugnizzi che bussano alle porte di qualcuno e chiedono: «vi è arrivata la scheda? Datela a me se non sapete chi votare». Peraltro, quando ho votato così, ero convinta di votare in una certa direzione e poi mi sono trovata costretta a ricredermi. Qui non si degnano neanche di presentare i candidati, non ci sono informazioni sui candidati; ho letto dei forum per dire che era una cosa vergognosa e gente dall’Europa o dal Sud America lamentava la stessa cosa, per cui il voto all’estero fatto così è vergognoso. Mettono delle facce così – qui ci sono le preferenze ma sinceramente a certe persone la preferenza non si può proprio dare – ma non c’è nessuna distinzione fra italiani che non hanno mai neanche vissuto in Italia e italiani come me, che sono appena andati via. Per cui io non sono d’accorso con l’Aire, che mette tutti assieme: credo personalmente che se uno non ha mai vissuto in un paese, non può esercitare il voto e influenzare la politica di quel paese.
Tu senti una forte distanza tra la tua tipologia migratoria rispetto alla migrazione classica, per lavoro, del secondo dopoguerra? Faresti due Aire, uno per i nuovi e uno per i vecchi, paradossalmente?
Dal punto di vista politico, sì. O non si fa la retorica della fuga dei cervelli, perché quelli come me che sono via da un paio d’anni continuano ad avere legami con il paese e a conservare ancora un’ambivalenza, e si chiedono ancora se vogliono tornare o no, ma dopo che sei via dieci o vent’anni non torni più. Per cui se l’Italia dice di voler approfittare delle persone che sono andate via ed hanno acquisito competenze, qualcosa deve darglielo a questi qui, e se non gli dà manco il diritto di esprimersi iniziamo bene. Io sento una forte distanza fra me e loro: non sono scappata dalla fame e sono una migrante privilegiata perche se mai mi succedesse qualcosa posso chiedere ai miei genitori di aiutarmi e ho le spalle coperte, mentre quelli che venivano qui negli anni venti o cinquanta scappavano dalla fame più totale o non parlavano né inglese né francese, specialmente le donne. Politicamente, non può essere la stessa cosa. Come mi sembra paradossale che un immigrato che vive in Italia da dieci o quindici anni non possa votare, anche se vive e paga le tasse e manda i figlia a scuola in Italia, mentre un italiano che non parla la lingua e non è mai stato in Italia può votare. Invece i nuovi migranti, un 50% di quel milione di persone della nostra età che se ne vanno dall’Italia, non hanno la possibilità di riconoscersi politicamente o burocraticamente. Per un paese che cerca di ricostruirsi mi pare una cosa pericolosa.
Sia la questione del voto all'estero sia la questione dell'Aire più in generale vanno regolamentate: la nuova diaspora di italiani all'estero, come tutto nel mondo globalizzato, è più fluida di quelle passate, anche se parte dalle stesse radici, l'impossibilità di immaginare un futuro nel proprio paese. Le persone vanno all'estero per un periodo non necessariamente predefinito, insieme a quelli come me che investono per periodi medio-lunghi, ci sono anche gli Erasmus, i cooperanti, i borsisti fuori dall'Italia per qualche trimestre, gli stagisti, quelli che cercano un'esperienza fuori ma non hanno ancora fatto il passo di fare i bagagli e andarsene, quelli in trasferta per periodi più o meno brevi: cosa facciamo con questa nuova generazione di enorme mobilità? Questa parte della popolazione rappresenta fette importanti della società italiana che comincia a mettere un piede nel mondo globale. Non permettere a queste persone di continuare a sentirsi parte attiva e legittimamente appartenente della cittadinanza significa non adeguarsi ai tempi, perpetuare lo sport nazionale di semplificare le realtà complesse mettendo tutto sotto il tappeto ed impedire che una parte estremamente dinamica della società si esprima, atteggiamento tipico del vecchiume politico e sociale del nostro così Bel, ma pure dissestato, Paese.
Perché non si possono allestire dei seggi nei consolati e far votare le persone presentando il passaporto e la scheda elettorale? Quali potrebbero essere i criteri? Per esempio, tutti i cittadini italiani che hanno vissuto in Italia almeno dieci anni (magari anche quindici) e che sono via da meno di dieci o cinque. Se si considerano quelli che sono via da meno di cinque anni, a mio parere questi elettori non dovrebbero votare i loro rappresentati all'estero ma votare per il parlamento italiano, con i candidati che si presentano in Italia. Quanto ai rappresentanti all'estero, sinceramente, Santo Dio, vi prego, eliminiamoli! A che cosa servono? A chi? Ci sono già i consolati e i centri di cultura italiana, non c'è bisogno di pagare per altri.
A pensar male e ad essere un po’ cospiratori verrebbe da chiedersi: visto che generalmente gli intellettuali, i pacifisti e gli attivisti politici sono di sinistra, non sarà una manovra da destroidi, di quei neoberlusconiani e neomafiosi che tanto amano tenere la cara Italia nella beata ignoranza e far votare solo quelli sapientemente nutriti all'ombra di tronisti e zoccolette da salotti TV? Poi ci si lamenta della volata dei populisti?
Io avrei concluso, volevi aggiungere qualcosa?
Volevo dire una cosa: da un punto di vista emotivo, è complicato lasciare l’Italia per la frustrazione e poi trovarsi in un contesto in cui hai delle nuove difficoltà alle quali non sei preparato, e ricominciare a crearsi un giro di conoscenze, con la solitudine e la malinconia…ma qui almeno c’è la sensazione di possibilità, nonostante i problemi sociali che hanno e la crisi (che ovviamente non è paragonabile alla nostra, anche se hanno un governo conservatore che inizia a fare parecchi tagli). In Italia invece mi sono sempre trovata di fronte a dei limiti, a dei no. Poi qui devo ricominciare da zero, devo costruirmi una vita e tutto, però resisto proprio per quest’aria di possibilità: che le cose ci sono, magari non ci arrivi subito perché non le cerchi nel modo giusto, ma ci sono, ed è una sensazione molto diversa dalla percezione della difficoltà in Italia. Lo vedo in molti miei amici che sono rimasti lì e sono giunti ormai ad un pessimismo che ti impedisce di rimetterti in moto.
Poi volevo fare una considerazione sui fondi e le borse erogate dal MAE. Per due volte ho fatto richiesta al consolato italiano di una sorta di borsa di studio derivante dall’accordo tra lo stato italiano e il governo canadese, per cui i vincitori della borsa sarebbero stati considerati esenti dalle tasse universitarie, che avrebbero pagato come i locali (si parla di una differenza di circa 15.000 euro in due anni!). Ogni università in ogni provincia ha diritto ad una o due borse. A Montreal ci sono cinque Università, abbiamo fatto domanda in due: io e un'altra persona, che peraltro non era idonea a riceverla perché studente phd e non di un master. La borsa non l'ha avuta nessuno nell'intera città di Montreal. I tentativi di chiedere informazioni al consolato e al ministero sono stati vani: é da malpensanti credere che le borse siano un bel cartello da esibire sul sito internet ma poi in realtà non esistono?