Sono arrivato nel febbraio del 2008 e da allora si è strutturata questa mia situazione un po’ bizzarra; io lavoro ancora in Italia e la parte importante dei miei legami sociali è in Italia; sono qui per ragioni affettive, la mia compagna ha avuto un contratto a Zurigo. Lavorava a Parigi ma per noi era difficile fare settimanalmente il tragitto Milano-Parigi, la sua impresa di allora apriva sede a Zurigo e noi abbiamo colto l’occasione al volo. Ma lei non è svizzera, i suoi antenati, secoli fa, venivano da lì, ma lei è francese. Non essendo il nostro paese, non pensai di integrarmi qui, poi avendo un lavoro che amo molto in Italia… sono rimasto con un piede in due scarpe.
È duro, il turn over è bloccato, ogni anno sempre più corsi, lo stipendio italiano in Svizzera vale poco, ma sono affezionato al mio lavoro a Milano e, perciò, prima dell’epidemia di covid, io due o tre giorni andavo in università a Milano per i corsi e gli esami.
Quanto tempo sei stato a Parigi?
A Parigi non mi ero trasferito completamente. Da ragazzo avevo fatto lunghi soggiorni, poi avevo avuto una borsa di sei o sette mesi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) dove ho portato avanti delle ricerche, poi concretizzatesi nel libro sui clandestini (Il cammino della speranza N.d.R.). Fin da ragazzo per ragioni affettive ho avuto rapporti in Francia. La mia compagna ha lavorato due anni a Milano, dove ci siamo conosciuti, e poi a un certo punto si è trasferita a Parigi; lei è alsaziana, ma è cresciuta lì e io andavo avanti e indietro. Questo è durato per circa un anno quando poi lei si è trasferita qui a Zurigo. Grazie allo ius sanguinis ha recuperato la cittadinanza svizzera e abbiamo due figlie nate qui, con tre cittadinanze e – sempre se le leggi resteranno le stesse – alla maggiore età dovranno sceglierne due. Si suppone che la prima sarà la svizzera perché credo sia una situazione stabile e definitiva. Dovranno scegliere tra quella italiana e quella francese. Sono vicende molto frequenti, questa è una società multinazionale, il 42% degli zurighesi non è svizzero e i figli con più di due cittadinanze devono scegliere. Un nostro amico polacco, cresciuto in Olanda, sposando una svizzera ha ottenuto la cittadinanza svizzera, non dice nulla quando va in Polonia e in Olanda, ma potrebbe averne solo due; in tal modo quando si reca in ciascuno dei tre paesi sfrutta tutti i rispettivi sistemi di welfare .
Le tue figlie che età hanno?
Quasi nove anni la piccola e quasi undici la grande. Abbiamo dato loro nomi italiani, ma come secondo nome la più piccola ha un nome francese.
A Zurigo si parla tedesco?
Si studia e si legge tedesco, ma la lingua che si parla normalmente è il dialetto (tedesco-svizzero) anche al parlamento cantonale usano il dialetto, che non è una lingua scritta, ma è più forte rispetto a quello dei nostri paesi. Non si parla tedesco, ma il dialetto.
La questione linguistica è più complicata di quella della cittadinanza. I bambini svizzeri sono bilingui, due lingue germaniche: il dialetto è molto diverso dal tedesco classico, loro ci tengono molto e lo usano a tutti i livelli. A scuola lo si usa anche con le maestre fuori dalla lezione, le lezioni sono in tedesco. Con noi genitori, a parte le nostre rispettive lingue, usano un poco anche il tedesco perché io e mia moglie non parliamo il dialetto. Lo svizzero-tedesco è la prima lingua delle mie figlie. Tra di loro parlano lo svizzero-tedesco, non il tedesco.
E il francese?
Con la mamma parlano francese, con me in italiano. Inoltre, io parlo bene francese e mia moglie bene l’italiano. Quando erano più piccole stavamo molto attenti a esprimerci ciascuno nella rispettiva lingua madre, in modo che loro le apprendessero correttamente, ora c’è un po’ di miscuglio.
Ma ha creato uno stato confusionale nelle bambine?
Le bambine non mescolano le loro due lingue germaniche con le nostre, ma italiano e francese sono vicine e questo ha creato un po’ di confusione; dicevano a volte frasi tipo andiamo a “promenarci” anziché andare a passeggiare, adesso molto meno.
Abbiamo deciso di far studiare loro privatamente una lingua, tra italiano e francese e abbiamo scelto il francese per una questione di difficoltà perché si scrive diversamente da come si pronuncia e per loro è più difficile scriverlo rispetto all’italiano. Lo studiano privatamente al di fuori dalla scuola. Prima o poi vorremmo far studiare loro l’italiano dato che non hanno problemi a parlare le due lingue, le parlano bene. Il problema è la scrittura.
Per quanto riguarda il tedesco, a scuola come vanno?
Vanno bene perché partono come tutti gli altri bimbi svizzeri, partono con il dialetto locale, hanno frequentato l’asilo, che è tutto in dialetto locale, e poi in prima elementare cominciano il tedesco.
A scuola studiano italiano?
Hanno la possibilità ma non a quest’età, alle scuole medie.
Il sistema svizzero stimola l’insegnamento di tutte le quattro lingue?
No, questo è quello che si pensa quando si viene da fuori. Al di là dell’inglese si chiede solo un’altra lingua nazionale accanto a quella ufficiale del cantone. Di fatto le persone fino ai cinquant’anni, oltre all’inglese e alla lingua del cantone, non parlano nient’altro, i giovani non parlano francese o italiano, ma tedesco, inglese e il dialetto locale. Vado ogni estate in Canton Ticino in commissione di esami al liceo di Bellinzona e i miei colleghi generalmente non parlano le altre tre lingue – perché c’è anche il romancio – in questo cantone chi insegna materie umanistiche spesso ha studiato in Italia, di solito a Pavia, chi ha studiato materie scientifiche va al politecnico di Zurigo; questi che hanno fatto gli studi scientifici nella svizzera tedesca parlano il tedesco, ma quelli delle materie umanistiche hanno le medesime materie in italiano perché è il Canton Ticino e non parlano né francese e né tedesco. Le persone anziane qui a Zurigo parlicchiano italiano e parlano bene il francese che in passato qui era molto prestigioso. L’italiano lo ricordano ancora perché avevano le donne di servizio, le baby-sitter che lo parlavano, era la lingua usata sui cantieri e spesso mi rispondono in italiano in strada quando chiedo qualcosa con il mio accento stentato inglese. Loro l’italiano lo parlano perché era la lingua franca sui cantieri; arrivarono prima gli italiani e poi portoghesi, spagnoli, ecc. e perciò si parlava quella lingua e gli spagnoli e portoghesi anziani parlano ancora l’italiano se occorre. I giovani qui sanno il tedesco e l’inglese.
È una questione un po’ di classe, i ceti più colti hanno più competenze linguistiche, ma la cosa sorprendente è come faccia a stare insieme questo paese perché ci sono scarse relazioni sociali tra i cantoni e scarso interesse soprattutto tra i cantoni tedeschi e quelli francesi.
Probabilmente conta molto il fattore economico, il fatto di non avere problemi economici: finché le cose vanno bene non ci sono contrasti.
Un tempo c’era un incontro intenso con il Ticino, vi sono signore anziane ticinesi sposate con svizzeri-tedeschi perché c’erano imprese per i tunnel nel Ticino e c’erano matrimoni tra la parte più ricca con il Ticino. Per loro, per gli svizzeri-tedeschi, il Ticino è già Mediterraneo. Quando qui c’è brutto tempo passano il tunnel del Gottardo provenendo da Zurigo e trovano il primo paese ticinese – che si raggiunge in un’ora e mezza – ci sono 57 km di tunnel ferroviario e in un’ora e quaranta sei a Bellinzona da Zurigo, e ciò si fa sistematicamente dalla primavera all’autunno.
Con il tunnel ci vuole poco tempo e numerosi abitanti della parte meridionale dei cantoni di lingua tedesca si sono trasferiti nel Ticino che è la parte meno ricca e hanno fatto alzare il costo delle case.
Questo incontro reciproco per ragioni turistiche non c’è quasi tra svizzera-tedesca e svizzera-francese. I miei amici svizzeri sono tutti sciatori e se gli chiedi dove sia bello andare a sciare ti indicano località della Svizzera tedesca, dei Grigioni o del Ticino, non prendono in considerazione le zone di lingua francese e ciò si riverbera nella scarsa conoscenza del francese .
Nelle classi delle tue figlie ci sono altri italiani?
Sì e in proporzione un alto numero di figli di stranieri, più o meno 3/4 su 10 sono figli di stranieri. Gli italiani stanno aumentando e quindi nelle ondate di nuove migrazioni ci sono anche le coppie miste di chi è arrivato vent’anni fa, mentre i genitori dei bimbi che arrivano ora non sono coppie miste.
A che milieu appartengono?
Professionisti e quadri aziendali perlopiù. Però ci sono anche dei milieu un po’ meno elevati. Meno elevati, però, per come si inseriscono in Svizzera, perché spesso si tratta di persone istruite. Ad esempio, noi avevamo una giovane maestra di asilo nido che veniva dalla Sardegna, venuta perché il fidanzato, che studiava a Cagliari, aveva avuto una borsa di dottorato a Zurigo e lei per aiutarlo economicamente, laureata in fisica, è venuta ad aiutarlo facendo la baby-sitter dato che la borsa non bastava.
Gli stipendi sono buoni e il lavoro garantito, così ha frequentato la scuola per baby-sitter e ha iniziato, lui ha incominciato a lavorare per un’impresa e ora si sono sposati. Lei non ha sfruttato la sua laurea in fisica. Si trovano persone che fanno lavori umili, ma che spesso arrivano già con le lauree, ma c’è la fretta di avere un reddito in un’economia più solida della nostra. Si tratta di stipendi alti per lavori che in Italia sono meno retribuiti. Questi giovani che arrivano accettano lavori che in Italia non accetterebbero, vale anche per le donne portoghesi: in patria non fanno più le colf, ma qui lo fanno volentieri a causa degli alti stipendi.
Abbiamo una ragazza baby-sitter, italiana, anche per questo le mie figlie parlano in italiano. È laureata allo IULM e sta conseguendo un diploma di tedesco per fare la magistrale e insegnare in Svizzera nelle scuole elementari. Viene da una famiglia piemontese di professionisti benestanti. Questi giovani si dedicano a lavori dallo status non elevato perché gli stipendi sono elevati e i contratti a tempo indeterminato.
La nostra prima baby-sitter aveva legami con la migrazione proletaria del secondo dopoguerra, da un paesino della Calabria è arrivata qui a 21 anni, sua madre infermiera e suo padre fabbro ferraio tutt’ora residenti in Calabria. Ed è venuta qui perché non ce l’aveva fatta a studiare e aveva qui zii e prozii della vecchia ondata migratoria e li aiutava anche nel loro ristorante. Ha trovato un fidanzato figlio di italiani della vecchia ondata, giovane come lei e che lavora all’ufficio dell’anagrafe. Quindi c’è anche un legame con la vecchia ondata di migrazione degli anni 60, quella proletaria. Un altro esempio: siamo amici di una signora, molto nota in Italia, che lavora in tv, biologa e giornalista, che lavora da anni con Piero Angela; il marito insegna all’università qui a Zurigo. Si occupa di materie scientifiche e lavorava in maniera precaria, ora la si sente spesso per il covid e una delle sue due figlie è stata compagna di scuola della mia più grande, lei fa la mia vita, avanti e indietro dall’Italia. Proviene da un milieu più elevato.
Tornando alle tue figlie quadrilingui: rispetto alla trasmissione della cultura italiana frequentate altre famiglie italiane e associazioni italiane?
Questo no per lo scarso legame sociale che ho con questo luogo e anche perché mia moglie non è italiana. Il legame con l’Italia è forte per le bimbe: andavamo spesso (prima del covid N.d.R.) sia in Francia che in Italia. Le vacanze erano quasi sempre in Italia e poi i nonni materni sono in Alsazia a un’ora e quaranta da qui. Adesso per il covid, in Italia andiamo meno, ma più a lungo per le vacanze, qui hanno due settimane di vacanze a ottobre e due da fine aprile a inizio maggio in cui andiamo da mia mamma in Liguria, o da mio fratello a Milano, e in estate stiamo in Liguria. Andavamo tutti gli anni prima del covid e parecchie volte l’anno: in estate, in autunno, Natale, le due settimane di aprile, a volte a Pasqua e a volte anche a febbraio. In estate hanno un mese solo di vacanza. Hanno le stesse vacanze italiane, ma più spalmate e andiamo lì circa cinque volte, ecco perché il legame è intenso.
Con i nonni ci sentiamo, con mia mamma quasi quotidianamente perché è sola, da quando c’è il covid vive con mio fratello che lavora per ora da lì. Con i nonni francesi ci sentiamo meno, ma ci vediamo spesso – almeno prima del covid.
Al di là di una tua integrazione più lenta cosa ne pensi sul fatto di far crescere le tue figlie a Zurigo?
Noi ci troviamo bene, mia moglie si trova bene al lavoro, lei ha esperienze multinazionali e ha visitato molti luoghi. Siamo contenti per le bambine che hanno dei vantaggi che non avrebbero avuto a Parigi e ancora meno in Italia. Poter girare liberamente e tranquillamente la città, che è piccola, le case sono basse ed è una città-giardino. I bambini sono educati fin dall’asilo ad andare da soli in giro. Non c’è inquinamento, e quindi per la qualità della vita per le bimbe è ottimo, non è come a Milano che per vedersi devono prendere appuntamento. Loro qua scendono in strada e vanno a bussare all’amichetto, c’è più facilità di incontro e relazione sociale proprio perché buona parte della città assomiglia a un villaggio.
Il 42% delle persone qui è straniero; il primo gruppo è italiano, con 60.000 italiani a livello del Cantone (escludendo i molti che hanno doppia cittadinanza), e il secondo gruppo sono i tedeschi. Nelle classi di mia figlia più grande ci sono figli di coppie miste e figli di coppie completamente italiane e sempre più frequentemente rispetto a quando nel 2011 ha cominciato l’asilo infantile.
Ci sono anche francesi?
La gerarchia è: primo gruppo italiani, secondo Germania, terzo Francia, quarto Portogallo; poi ci sono croati, spagnoli e kossovari. A mio parere, la Svizzera ha una politica di selezione degli stranieri, non esplicita, su base nazionale; forse è effetto della selezione professionale e delle catene migratorie, forse c’è anche un intento in ciò.
L’immigrazione dall’UE e, comunque, dall’Europa, è nettamente prevalente nei cantoni di lingua tedesca rispetto a quella non comunitaria. Nella vita quotidiana i rapporti tra svizzeri e stranieri sono cordiali, non di rado nascono rapporti affettivi, eppure ogni tanto si fanno ancora i referendum per ridurre la presenza straniera, come quello nazionale del 2014 per limitare la libera circolazione dei comunitari, quello del 2016 in Ticino per ridurre i frontalieri italiani. A Zurigo, però, il pregiudizio (non eccessivo) è diretto ai tedeschi, sono qualificati, occupano posizioni professionali prestigiose, si “ostinano” a parlare tedesco in luogo del dialetto locale, e gli svizzeri si sentono un po' minacciati da tutto ciò.
In casa vostra che abitudini culinarie avete? Italiane o altre?
La mamma cucina alla francese e io all’italiana. Anche qui come per la lingua, avendo una baby-sitter italiana, per il cibo prevale l’italianità. Ma direi anche al di fuori di casa nostra. Qui non è come in Francia che ha una forte tradizione culinaria e la cucina italiana la trovi anche nei ristoranti e nelle case svizzere. A volte le bambine arrivano a casa e dicono «basta pasta papà, ieri alla mensa a scuola ci hanno fatto la pasta al pesto e, l’altro ieri, gnocchi al sugo». La Francia in questo campo è surclassata dall’Italia che ha una cucina più rapida e non c’è quella resistenza naturale automatica come in Francia. In Svizzera non c’è una vera e propria tradizione gastronomica: nelle case svizzere, a parte la fondue che è in verità savoiarda, i roestli e vari tipi di wurstel e formaggi di montagna, non si trova molto altro di locale. Le famiglie svizzere che conosciamo non mangiano diversamente da come mangiamo no, forse c’è più carne. Dal punto di vista esistenziale, tutta la Svizzera, non solo il Canton Ticino, nella vita quotidiana è un po' un’appendice dell’Italia piuttosto che degli altri paesi vicini, soprattutto per la questione del turismo e dello shopping: basta andare da giugno a settembre al trafficatissimo tunnel autostradale del Gottardo per vedere una nazione proiettata sul Mediterraneo. Il tempo libero, gli svizzeri, lo trascorrono a sud delle Alpi. Vanno, o nelle montagne svizzere o in Italia nel Mediterraneo. Tutte le feste comandate, fai la fila al Gottardo con tutti gli svizzeri che scendono! Poi, non lo notavo quando ero milanese: la carovana dei saldi che si va a fare a Milano. Per loro già tutto è meno costoso, del 25%, almeno, e quando ci sono i saldi ancora di più. Sotto vari punti di vista, dal punto di vista esistenziale, nonostante le differenze di lingua e di cultura, c’è una proiezione sul Mediterraneo.
Cucina, turismo, moda e design… in parte, quindi il punto di riferimento è l’Italia.
Non sono neanche più luoghi comuni del marketing del Made in Italy, usufruire di un certo tipo di servizi e prodotti italiani è divenuto spontaneo, e per loro riferirsi all’Italia è naturale e ovvio quasi come lo è per gli italiani stessi. Vivono il tempo libero come lo viviamo noi milanesi dove, quando scoppia il caldo, l’afa, le zanzare, l’inquinamento, corriamo e ci affolliamo sulle strade per andare in Liguria, come del resto fanno anche i piemontesi. È l’Europa, insomma, a portare al sud non è più tanto il mito dell’italianità come è rappresentato dal marketing, con un’immagine commerciale ed edulcorata dell’Italia e dell’italianità, e perché le distanze sono brevi.
Anche nelle distanze lunghe, penso ai miei amici i miei amici scandinavi, per loro è normale andare in Italia, hanno quel mese dell’anno che trascorrono in Italia.
Esatto, così come il lago di Garda è il luogo di vacanza naturale per austriaci e tedeschi.
Tornando ai figli, dal tuo osservatorio, sia per quanto riguarda la Svizzera sia per altri paesi, a partire dalla Francia, come si integrano queste nuove generazioni? Sono diverse da quelle del secondo dopo guerra?
Io non ho una permanenza abbastanza lunga per poterlo dire. Vedo figli piccoli di una prima generazione, magari anche di coppie miste, i bambini coetanei delle mie figlie hanno genitori arrivati da poco, so poco, so di chi è arrivato da più tempo. Per ora i nostri bambini sono molto europei, tutti quanti, perché anche gli altri figli di italiani e di coppie miste sono europei. C’è la differenza formale tra i figli delle coppie miste, come nel mio caso, che hanno la cittadinanza svizzera fin dalla nascita, e quelli di genitori entrambi stranieri, che quindi non hanno la cittadinanza svizzera, ma dal punto di vista quotidiano, culturale e di integrazione tra i bambini non c’è nessuna differenza. Vi sono bambini che sanno la lingua locale, che vivono come i miei figli, ma non hanno la cittadinanza perché nati da coppia straniera. Per ora quindi stanno crescendo fortemente integrati, ma anche transnazionali a causa dell’origine straniera di uno o di entrambi i genitori. Cosa avverrà quando saranno adulti non saprei, io vedo ciò che accade a quelli della mia età, agli svizzeri figli di terza generazione: lì dell’italianità non hanno più nulla. Credo che un domani, tra parecchio tempo, i miei nipoti, se nasceranno, non avranno più questa proiezione sovranazionale che hanno ora le mie figlie, non parleranno italiano e francese.
Qui la stragrande maggioranza di chi è arrivato negli anni ‘50-‘60 è tornato in Italia, ma chi è rimasto – non la prima, ma la terza generazione – ha perduto totalmente il legame con le sue origini. Ogni tanto qualcuno parlando mi dice: «ah, sei italiano, ma lo sai che mio nonno veniva da Trento o Padova». Io non lo sapevo perché loro dopo tre generazioni hanno pure un cognome svizzero e non ci si rende conto che hanno origini italiane.
Questa società ha integrato poco la prima generazione, ma chi ce l’ha fatta ed è rimasto, si è assimilato. La prima generazione difficilmente si integra, la seconda, almeno nella fanciullezza, mantiene una dimensione sovranazionale, la terza è totalmente assimilata con una memoria della propria italianità scarsa, anche se hanno usi italiani, ma più che altro nella misura in cui qua ce li hanno tutti, incluse persone con nome e cognomi italiani.
Definiresti i discendenti degli italiani “italici”?
Forse in Europa non ne hanno bisogno, si mettono nel trend generale del paese, vanno in Italia quando vogliono, si ricordano dei nonni, ma in generale vale più per l’estero per i paesi transoceanici dove si crea un mito legato sulla lontananza e non alla sovrapposizione di un’entità europea che si sta bene o male affermando.
Probabilmente c’è anche questo, questa società non ha una politica così esplicita di assimilazione, come la Francia fino a qualche tempo fa. Il sentimento nazionale è diverso in un paese federale. Però è una società che in qualche modo è molto selettiva, ma chi è selezionato è totalmente assimilato: lavoro con persone mie coetanee, ma di terza generazione, non hanno nulla delle loro origini di solito italiane e ciò è sistematico in chi ha il nonno italiano.
Non c’è nemmeno un po’ di orgoglio italiano?
Se ti raccontano quel poco che sanno delle loro antiche origini italiane vuol dire che non se ne vergognano, che in Svizzera non c’è più pregiudizio antitaliano, altrimenti non te lo direbbero, ma non te lo raccontano perché ne sono orgogliosi, ma perché non giudicano né male né bene avere queste radici italiane, essendo qualcosa che sparisce, di veramente secondario nella loro coscienza e identità.
Secondo te ha pesato il pregiudizio forte del secondo dopoguerra per cui sono ancora in una fase?
Nella terza generazione non penso, certo siamo in Europa e anche questa è una società più multietnica di quella italiana: il 24-25% dei residenti è nato all’estero; da noi in Italia gli stranieri sono in percentuale molti di meno. Il pregiudizio in generale verso lo straniero c’è sempre, ma qui si orienta verso il tedesco arrivato da poco, come spiegavo prima. I luoghi comuni, anche quelli positivi, sono ancora presenti, non saprei dirti se questo ha facilitato la cancellazione dalla memoria delle proprie origini, vi posso dire che è forte l’integrazione della terza generazione nella vita generale di tutti gli svizzeri anche perché penso – alla luce di ciò che conosco e che ho letto da colleghi – chi ha resistito nel periodo della migrazione proletaria ed è rimasto (ed era uno su dieci) ha resistito grazie alle sue qualifiche professionali e a una vocazione psicologica all’integrazione. Erano già persone predisposte, in grado di cambiare facilmente l’identità e la memoria personale. La Svizzera tedesca non è la Francia che dava facilmente la nazionalità con lo ius soli, non ha nemmeno una lingua come il francese o il castigliano – penso all’America latina –, per cui essendo imparentate con l’italiano puoi continuare a coltivarle entrambe. L’impressione è che più un paese offre poche opportunità di integrazione, più i pochi che riescono a rimanere in modo definitivo, finiscano per assimilarsi. Tra l’altro, in Svizzera gli ostacoli all’integrazione degli stranieri non erano solo culturali, ma anche legali, si privilegiava la rotazione, il contratto stagionale, annuale, il divieto di ricongiungimento familiare (si vedano i bambini clandestini). Tutto ciò fa sì che chi resta, e ce la fa, è obbligato ad assimilarsi – anche se non c’è, come c’era in Francia, una retorica governativa assimilazionista che obbliga ad avere un senso nazionale forte. Anche la differenza linguistica conta molto nell’indurre a voltare pagina rispetto alle proprie origini.
Avevo letto un articolo tedesco in cui si paragonavano le posizioni nei livelli alti della società, manageriali e politici, tra la Svizzera e la Germania individuando i figli dei migranti partendo dai cognomi di chiara matrice straniera. In Svizzera vi erano molte più persone in posizione “di comando” di quante ve ne fossero in Germania. Di conseguenza, la tesi dell’articolo era che la Confederazione fosse un esempio di integrazione con la sua percentuale di stranieri che occupa tutti i livelli e milieu senza le nicchie professionali che si riscontrano in altri paesi.
Io penso che quanto sostiene tale articolo dipenda molto dal fatto che percentualmente gli stranieri in Svizzera sono sempre stati e sono molto più numerosi che in Germania (in Germania gli italiani sono 600.000, ma su 82 milioni di residenti; in Svizzera gli italiani sono 600.000, ma su 8,4 milioni di residenti). È naturale che in un paese dove un residente su quattro è straniero e dove, in vari Cantoni, quasi uno svizzero su tre ha un genitore straniero, qualcuno dei tanto numerosi stranieri (o figli e nipoti di stranieri) presto o tardi entri anche nelle sfere sociali più elevate. I libri più noti sull’immigrazione per gli svizzeri negli ultimi vent’anni non sono tanto i libri degli storici – penso al nostro Toni Ricciardi, alla Nelly Valsangiacomo – ma è un testo di un geografo, Etienne Piguet, L'immigrazione in Svizzera. Sessant'anni con la porta semiaperta, 2009. Io andai alla presentazione a Bellinzona e lui sciorinava i dati sulla riuscita sociale di stranieri e italiani alla terza generazione: non c’era differenza con la generalità della popolazione svizzera per quanto riguarda l’inserimento nei settori di economia e politica. Lui sosteneva che la Svizzera ha avuto una politica di chiusura selettiva, ma poi ha saputo integrare anche più di altri paesi. Io mi permisi di alzare la mano dicendo che si trattava del risultato dopo tre generazioni. Il grado di integrazione, però, va misurato su tutte le generazioni e non si può trascurare il fatto che su 100 che arrivavano, presto o tardi 93 tornavano, il tasso di rimpatrio rispetto agli altri paesi europei è stato incredibilmente più elevato, la permanenza durava massimo un anno, due negli anni sessanta, e valeva per la quasi la totalità degli immigrati. Sono livelli di rotazione superiori persino a quelli allora vigenti in Germania. Quindi: non si può giudicare la capacità di integrazione solo dopo tre generazioni! Ciò che è effettivamente vero e che rispecchia l’ottimismo del testo di Piguet circa la terza generazione, è che alla terza generazione il ricordo delle proprie origini si è perso quasi totalmente e questo è un segno di integrazione e di assimilazione. La porta era così difficile da aprire che i pochi che sono riusciti a spalancarla erano disposti a cambiare la propria memoria, la propria identità pur di restare.
Io penso sia per questo che le radici della terza generazione, anche di spagnoli e portoghesi, sono state quasi dimenticate e costituiscono al massimo un aspetto della propria identità che viene usato a seconda del contesto in cui ci si trova. Ad esempio, una nostra vicina zurighese, mia coetanea, che parla l’italiano per ragioni di lavoro e ha un nonno di Trento, quando va in Italia non usa la propria identità, come fanno le seconde generazioni, mostrandosi italiana, ma va lì per turismo e parla un po’ di italiano che ha appreso non dalla famiglia, ma dal suo lavoro.
In Svizzera esiste un colosso della ristorazione italiana. I proprietari (non faccio il nome dell’impresa, sembrerebbe pubblicità) sono spagnoli di origine, arrivati all’inizio del XX secolo in Ticino e poi, attraverso matrimoni, si sono “italianizzati” nel Ticino e, in seguito, si sono trasferiti nella Svizzera tedesca. Oggi sono alla quarta generazione. Un fratello si è lanciato nell’edilizia e l’altro nella cucina italiana. Girano dappertutto questi loro camion aziendali con lo slogan scritto in italiano. Il titolare parla perfettamente l’italiano, lo conosciamo perché la figlia è a scuola con le nostre. Parla italiano, non tanto per la famiglia ticinese, ma perché lui ha comprato vigne in Toscana e vi si reca spesso per comprare prodotti gastronomici di qualità, possiede delle cantine in Italia , sceglie le mozzarelle di bufala ecc., ma è un’italianità inventata perché nelle sue radici c’è la Spagna e il Ticino. La nostra amica zurighese, sposata con lui e poi separata, ha iniziato a lavorare nel suo impero gastronomico e ha appreso l’italiano. Ma in questa italianità di impresa, in buona parte ‘inventata’, la memoria del nonno italiano non ha alcun ruolo. Andava lì in vacanza come fanno tutti e siccome ha appreso lavorando col marito l’italiano, lo usa, ma non ci gioca come spesso avviene nella seconda generazione, come fa ad esempio un mio caro amico. Appartiene alla seconda generazione con i genitori venuti qui da giovani, il padre, meccanico e riparatore di macchine e utensili, è di Cesena, la madre di Vicenza. Lui è nato qui, ma conservano vigne in Italia e ha sempre vissuto sia lì che qui; perciò lui parla perfettamente l’italiano anche se ha studiato in Svizzera. Ecco, lui è totalmente transnazionale e quando arriva in Italia gioca sulla sua doppia identità: con gli italiani tira fuori il suo accento romagnolo a Cesena e lo fa di proposito quando va a contrattare il prezzo dell’uva di suo padre alla cantina sociale. Naturalmente i suoi interlocutori sanno che è svizzero e quindi dicono «questo ha i soldi» e gli fanno un prezzo più alto (anche acquistare una casa vacanze a Cesena per loro è stata dura, volevano imporgli un prezzo svizzero). Lui, essendo di seconda generazione, gioca sulla propria duplice identità nazionale: in Svizzera parla il dialetto locale, in Italia fa altrettanto. Invece le persone di terza generazione non potrebbero farlo perché non parlano l’italiano e non sentono più l’italianità. Vedremo i miei nipoti.
Le tue figlie vanno a una scuola pubblica?
Sì, qui la scuola pubblica è prestigiosa e vanno lì anche figli di famiglie molto benestanti, ecco perché la figlia del noto ristoratore a cui accennavo va nella stessa scuola.
Secondo te quindi il paradigma della grande migrazione oltreoceanica secondo cui la prima generazione mantiene la propria cultura, la seconda in contrasto con la precedente, vuole, come nel caso degli Stati Uniti, americanizzarsi e la terza poi recupera le sue radici, in Europa non funziona?
Io vedo il contrario. Non essendoci più qui un forte pregiudizio contro gli italiani, ormai il pregiudizio è rivolto verso altri gruppi, la seconda generazione degli italiani non confligge con le origini dei genitori, non le nasconde, non se ne vergogna; tuttavia la terza generazione dimentica, non riscopre le origini; questo è quello che vedo.
L’italicità passa attraverso altre vie come l’italofilismo degli svizzeri che comprano prodotti Italian sounding?
Sì esatto.
Cosa ne pensi di ciò che sta facendo ora il Ministero degli esteri sul turismo delle radici per la Svizzera o la Francia?
Io conosco solo la realtà svizzera, e pochissimo quella francese, o perlomeno i francesi che conosco non sono italiani di origine. Per quanto riguarda la Svizzera, vedo che per la terza generazione, la politica del Ministero non solleticherebbe il loro orgoglio e per questo territorio mi sembra anche superflua perché la proiezione degli svizzeri sull’Italia è molto forte, soprattutto su Milano che da Zurigo dista 300 km. Penso che sia una politica utile per i paesi dove vige un atteggiamento conflittuale verso l’italianità, dove la seconda generazione ha un rapporto conflittuale con le origini italiane.In tali contesti l’iniziativa del Ministero sarebbe dunque utile per ricreare un habitat, il lebensraum, (non nel senso banale dei nazisti), ossia uno spazio di influenza culturale che comporti la diffusione della lingua, della cucina. Ciò gratificherebbe la terza generazione che vuole riscoprire l’identità nazionale dei nonni. Soprattutto, tale ‘lebensraum’ di italianità, è una risorsa economica che coinvolge anche popoli non di origine etnica e ciò può essere interessante, gradevole per chi lo vive. Qui, per come vivono l’italianità, è quasi superfluo, non accarezza e non stimola l’orgoglio delle radici e non aggiunge nulla perché la proiezione sull’Italia, sui modi di vita, di mangiare ecc. è molto forte, indipendentemente dalle proprie origini etniche. Soprattutto dal punto di vista geografico, di vicinanza, questo è un pezzo di Lombardia per lo shopping, l’abbigliamento, il cibo, e soprattutto il turismo. È come un pezzo di Lombardia o di Piemonte che si riversa in Liguria nei week end estivi.
Ho dimenticato poi un elemento importante che riguarda il patriottismo, il lealismo verso la Svizzera nel caso dei figli degli stranieri. L’attaccamento alla Svizzera è forte per i bambini, a loro avviso ciò che viene dalla Svizzera è migliore, soprattutto nel caso dei figli di coppia mista. Nel caso delle mie figlie, con tre nazionalità, anche nelle partite di calcio Svizzera contro Francia o Italia si tifa la Svizzera. La Lara Gut è l’idolo, scende la Bassino, la Goggia (sciatrici italiane N.d.R.), non c’è partita. A volte se trovano una mozzarella svizzera comprata al supermercato svizzero Migros, dicono che è migliore di quelle di bufala che io porto dall’Italia. È una gerarchia del Made in Switzerland forzata, la mozzarella infame del supermercato svizzero è migliore di quella di bufala italiana. I prodotti italiani piacciono, ma se tiri fuori un prodotto svizzero a parole ti diranno che è migliore, anche se mangiano di più quelli italiani. Hanno bisogno di affermare una gerarchia nazionale e il paese dove vivono conta più di quelli dei loro genitori.
A Milano le mie figlie notano le strade sporche, i palazzi grigi e si sforzano di notarle perché c’è una gerarchia, ma io trovo che sia giusto che ce l’abbiano. La Svizzera è in cima alla loro gerarchia e tentano di affermare contro ogni evidenza questo primato. E questo lo vivono non solo le mie figlie, ma anche gli altri bambini figli di stranieri.
Questo a confronto con i genitori, ma a confronto con i loro coetanei?
Con i cugini francesi si vantano di saper parlare la loro lingua, mentre loro non parlano il tedesco, e gli parlano in tedesco a volte provocatoriamente e fanno prevalere la loro soprannazionalità, si vantano di essere non solo francesi, ma anche qualcos’altro. In Svizzera, invece ci tengono a far capire che, pur parlando italiano e francese, sono soprattutto svizzere. E poi c’è un certo municipalismo, parlano spesso di Zurigo più che della Svizzera, per i bambini lo spazio fisico e locale dove vivono è più importante della nazione, che per loro è un po' un’astrazione.
Qui il municipalismo è molto più forte che in Italia. Al lago vedi i ragazzi con il tatuaggio del logo del Comune di Zurigo. Qui ad esempio, si affittano dei piccoli lotti di terra per piantarvi l’orto, lo fanno molto anche gli immigrati, ci sono delle zone dove si fanno gli orti urbani e tradizionalmente ci sono i pali con le bandiere degli italiani, degli spagnoli ecc.: quando ad affittarle sono gli svizzeri, raramente mettono la bandiera svizzera, ma si vedono quelle dei rispettivi cantoni di origine, di Uri, di Sankt Gallen, di Berna ecc. per far vedere ai vicini di essere svizzeri, ma non zurighesi sottolineando nuovamente l’importanza della propria municipalità.