Simone Battiston è in Australia dal 2000. Simone e Sabina Sestigiani, si sono conosciuti in Italia, coniugi. Sabina ha un dottorato alla Monash University di Melbourne. Docente universitario e studioso delle migrazioni italiane lui e insegnante di italiano lei. Hanno due figli Leonardo di 7 e Tommaso di 13 anni, naturalizzati. Nel 2019, hanno passato sei mesi in Italia nel paese d’origine Simone, Portogruaro, dove Tommaso ha frequentato la prima media e Leonardo la prima elementare. Adesso frequentano la scuola statale anglofrancese in mancanza di una scuola italiana a Melbourne.
SB: l’Australia è stata la prima e ultima destinazione per entrambi, senza precedenti pellegrinaggi europei. Io sono arrivato nel 2000, come Sabina, ma lei è rientrata in Italia e poi è tornata nel 2003. Ci siamo conosciuti in Italia a una conferenza a Treviso, ma entrambi vivevamo già in Australia. Io sono arrivato per curiosità, per viaggiare – non avevo fatto l’Erasmus e volevo approfondire l’inglese – ma non avevo l’idea di trasferirmi all’estero, economicamente non ce n’ era bisogno e non c’era ancora la crisi. Quando sono arrivato in Australia nel 2000, c’erano pochissimi nuovi italiani, erano una rarità. Quando son partito i visti vacanza lavoro (working holiday visa) concessi erano pochi. Non c’era la convenzione (in vigore nel 2004). Mi son trovato a vivere da osservatore questa emigrazione che ha cominciato a prender passo dopo qualche anno. Io ho fatto un dottorato con una borsa di studio presso La Trobe University, e Sabina alla Monash University di Melbourne, che è un po’ la storia di altri che con una laurea di vecchio ordinamento o magistrale in tasca si sono imbarcati a fare studi di dottorato, o post dottorato, e poi da progetto di studio-lavoro è divenuto progetto di vita, i figli son nati qui. Ecco, forse, con i figli sono arrivati i primi dubbi sullo stare qui.
Lavorate entrambi all’università?
SS: Io adesso mi sono ritrovata senza lavoro e sto cercando di riorganizzare la mia vita. Sto pensando di prendere l’abilitazione per insegnare alle scuole superiori e poi vedremo. In questo momento all’università è tutto fermo. C’è crisi perché le università australiane non sono totalmente pubbliche e risentono dell’andamento dell’economia e delle mode. Le lingue straniere sono tutte in crisi. La mia storia è un po’ diversa, io avevo le idee più chiare di Simone. La prima volta sono venuta con un progetto della Regione Toscana e del governo italiano. Ero assistente di lingua italiana in due scuole elementari del Victoria. Una buona occasione perché avevo fatto una tesi su una scrittrice neozelandese, Janet Frame, all’università di Firenze. Mi era piaciuta l’esperienza ma terminata l’esperienza di assistente di lingua italiana sono tornata in Italia, e siccome l’Australia mi era rimasta nel cuore sono tornata e sono riuscita a fare un dottorato alla Monash University. Dopo qualche anno ho conosciuto Simone. Sono orgogliosa di non aver seguito il marito come pensano tutti. Son venuta qua da sola. Avevamo così tante cose in comune ed è stato facile decidere di restare in Australia. È andato tutto sempre a meraviglia, dal punto di vista della carriera a parte l’ultimo intoppo. Con i bambini abbiamo cominciato subito a parlare italiano a casa. Per i bambini abbiamo scelto nomi italiani, Leonardo, detto Leo (o ‘Lio’ pronunciato all’inglese), e Tommaso che viene di solito chiamato per intero. Nel 2019 siamo stati a Vinci e abbiamo visto l’atto di battesimo di Leonardo Da Vinci e c’era scritto ‘Lionardo’!
Che scuole hanno fatto?
SS: Quando è nato Tommaso non avevamo la residenza permanente e quindi è stato naturalizzato assieme a noi quando aveva un anno e mezzo. Ottenuta la cittadinanza, abbiamo preso tre mesi di aspettativa e Tommaso ha iniziato la prima elementare in Toscana nel 2013. La scuola era in campagna e non era preparata a un bambino dall’Australia. Erano rigidissimi, si aspettavano tantissimo. Ci dicevano, «lui ha un bilinguismo perfetto», ma non capiva le istruzioni dei testi che avevano linguaggi tecnici. Ma quell’esperienza, più i viaggi e le vacanze in Italia, il contatto con i nonni che non parlavano in inglese, gli hanno dato quell’input necessario. Parlava con il linguaggio di un ottantenne: aveva un’ottima proprietà di linguaggio, e ha fatto un mix dei nostri accenti. Usava il vocabolario toscano di mio padre, nato nel 1929, di estrazione contadina. Diceva (Tommaso): «Ha principiato a piovere» ma con l’accento veneto. Si notava che se si trascorreva un mese in Italia l’italiano appreso aveva una durata di sette o otto mesi, poi l’inglese rientrava con prepotenza. Nelle migrazioni più recenti ormai non esiste più un’area, dove si concentrano gli italiani. Noi abitiamo in una zona con una forte presenza ebraica, in cui ci sono molti residenti originari dell’Europa orientale, Russia e repubbliche ex Sovietiche. Gli identity markers fisici delle vecchie little italy qui sono molto sparsi, quindi ti aggrappi più alla lingua. Non abbiamo la festa del santo organizzata dall’associazione x, non c’è un retaggio tangibile.
SS: La presenza dell’inglese della scuola diventa molto forte, col primogenito si è vista meno perché continuavamo a parlare italiano. Con il secondo c’erano gli amici del fratello più grande a casa e il più piccolo è stato esposto meno all’italiano, poi hanno anche attitudini diverse. Da piccolo Leonardo lo capiva, ma non parlava bene. Era molto passivo.
Con voi parlano sempre italiano?
SB: Dobbiamo confessare che molte volte tra di noi si usa l’inglese. Per i comandi funziona benissimo, l’italiano a volte è un po’ troppo sdolcinato. Una cosa che ha studiato anche Sabina come linguista, in queste aree linguistiche che non sono pure, one parent one language è un purismo che a noi sta un po’ stretto. Temevamo che i ragazzi la vedessero come una costrizione. Abbiamo fatto poi la pazzia di introdurre una terza lingua l’anno scorso.
Nel 2019, quando ci siamo incontrati a Torino, Leonardo, 5 anni, si è sbloccato. Tutti e due hanno fatto la scuola, Leonardo la prima elementare, Tommaso la prima media, per alcuni mesi. Un’avventura molto bella. Leonardo quando ha saputo che si rientrava ha pianto per due giorni. Il fratello invece contava i giorni.
Abbiamo poi deciso di introdurre il francese, che Sabina conosce molto bene. C’è una scuola bilingue anglofrancese sponsorizzata dall’Alliance Française, come le scuole bilingue italiane. Questo perché non abbiamo trovato l’equivalente per l’italiano nella zona dove abitiamo a Melbourne. Il modello di questa scuola è binazionale: un giorno in inglese e un giorno in francese. Il secondo motivo della nostra scelta è che volevamo, data l’immigrazione asiatica sempre più forte e che spinge a imparare lingue asiatiche, per ragioni affettive, introdurre una lingua romanza, scegliendo una lingua (e una cultura) molto vicina a noi. È una scuola statale, con una retta accettabile. Ci siamo incontrati con un’altra diaspora simile, ma con tratti diversi. Quello che ci differenzia è che non c’è una comunità storica francese numerosa come quella italiana. È più recente, di élite con tratti socioeconomici più elevati. Molti vengono per alcuni anni, lavorano per le grandi ditte e poi vanno via.
È una scuola più europea?
SS: Ci sono coppie miste francesi. Molti sono come noi e vogliono che i bimbi imparino una terza lingua. Ci sono spagnoli e sudamericani, latini. C’è poi chi è originario delle isole Mauritius, della Nuova Caledonia, o da altri paesi francofoni. Una cosa che ci piace è che ci dà un respiro internazionale.
SS: Siamo rinati.
SB: La scuola offre un programma di ebraico. Ci sono molti israeliani o residenti di fede ebraica, alcuni di questi collegati alla Francia.
C’è un elemento di identità europea o solo romanza, latina?
SS: Per quanto riguarda noi è un’affinità culturale, amiamo la letteratura, il cinema francese e poi avevo questa lingua che volevo passare ai bambini. Scelta di affinità elettiva. Mi sento anche molto europea e sento i francesi molto simili a noi. Per i latini la lingua francese è forse più prestigiosa.
I francesi in Australia non sono emigrati quindi ma seguono per lo più le aziende?
SB: Sì, in generale possiamo parlare di un’emigrazione qualificata o altamente qualificata e tendenzialmente più recente. C’è un livello di ricchezza nella comunità expat francese molto elevato, e un ambiente socialmente più vicino all’élite.
Ci sono molti italiani?
SS: Nella scuola che frequentano i bimbi, no. C’è qualche francese di origine italiana. È rimasto il cognome ma sono francesi.
SB: Il modello della scuola è quello delle scuole private internazionali in cui i diplomatici mandano i propri figli, ma questa scuola è statale e ha una retta bassa. Non è questione di censo, ma di scelta.
I vostri figli hanno amici italiani o sono compagni di scuola
SS: Frequentano i compagni di scuola. Abbiamo figli di amici italiani, ma abbiamo vite molto piene, non li vedono regolarmente.
Leonardo e Tommaso conoscono l’italiano scritto?
SS: Tommaso sì, ha frequentato per quattro mesi la 1° media a Portogruaro. Ma non è molto forte! L’ortografia è un po’ vacillante, e non lo pratica quasi mai da quando siamo rientrati. Leonardo non ha fatto in tempo a sviluppare lo scritto. Ha frequentato qualche mese di 1° elementare e sa leggere un po’, ma la scrittura è quasi inesistente.
Avete intenzione di fargli approfondire lo studio della lingua?
SS: Avevo già pensato quest’anno di mandarli alla scuola del sabato mattina come tutte le famiglie etniche, sia a distanza che in presenza, finanziata dal governo regionale con rette irrisorie. Hanno migliaia di studenti di tutte le lingue con insegnanti pagati pochissimo. Il livello era molto basso. L’insegnante faceva fatica a capirmi.
Sono in contatto con la Società Dante Alighieri e facevo presente la cosa alla direttrice della mancanza di controllo, anche se gli insegnanti sono registrati all’albo, è sufficiente un major in italiano, ma non c’è un vero controllo e gli insegnanti non sono sempre di un livello abbastanza alto per poter insegnare a dei bambini bilingui. Vanno bene per insegnare italiano come seconda lingua. Basterebbe che facessero esami di proficiency come si fa con l’inglese. Darebbe sicurezza di qualità. Secondo me, il governo regionale del Victoria dovrebbe richiedere questa certificazione.
Quindi li avete tolti dal corso, che progetti avete?
SS: Stiamo pensando di avere tutor privati.
Nelle scuole superiori non è possibile scegliere italiano?
SB: Anche lì la qualità non è sempre buona, o comunque non adatta per studenti che sono bilingui. Tommaso ha iniziato la high school, una specie di liceo scientifico, e lì offrono francese, tedesco e spagnolo.
SS: Dobbiamo fare uno sforzo in più, pensavo di mettermi in contatto con le famiglie della zona per fare una scuola nostra chiamando un tutor.
Quali sono i vostri progetti educativi per i vostri figli?
SB: Entrano in ballo diversi interessi. Il livello delle lingue straniere nelle scuole statali australiane non è molto alto; così abbiamo deciso di introdurre una terza lingua in un programma bilingue. Ci siamo accorti che c’era spazio, non ha fagocitato l’italiano. Loro ci hanno chiesto perché. Coi nonni era più facile, adesso, Covid a parte, non ci sono più. La scelta era per una scuola di qualità. La sera leggo loro libri in italiano di autori italiani, ma anche francesi e inglesi. Lo sforzo è sovrumano. Adesso abbiamo un po’ trascurato l’italiano.
SS: Per come è organizzata la scuola era l’unico modo per dargli un’altra lingua, le lingue in Australia non sono la priorità del curriculum australiano e il livello tende a essere basso. L’italiano è importante perché è la lingua in cui siamo nati, della nostra passione. I nostri bambini non hanno mai messo in discussione l’italiano. Sarà diverso per la scrittura. Vorrei che avessero l’opportunità di leggere la letteratura italiana con tranquillità. Avere le basi per fare una scelta di questo tipo. Penso che sia una ricchezza. L’abbiamo sempre dato per scontato.
Quando andate in Italia andavate a fare visite culturali?
SS: I miei ci fagocitavano. Non abbiamo visto tantissimo, ma un minimo sì.
Secondo voi i vostri figli come si sentono?
SB: Due anni fa quando siamo rientrati in Italia, sull’aereo Tommaso aveva scritto su una lavagnina «Sono a casa». Sanno di essere “a casa” quando arrivano in Italia, anche se, in realtà, come bambini devono ancora avere coscienza della loro identità plurima. Alcuni fattori ci differenziano rispetto ai modelli noti. Non c’è l’influenza del dialetto, non c’è la forza gravitazionale della comunità storica e non c’è una comunità etnica di riferimento in realtà.
SS: Chiesi a Tommaso, quando era molto piccolo, se si sentiva italiano o australiano. E lui si mise a piangere e mi disse «ma che domanda mi fai, io non la capisco!». Adesso mi dice con tranquillità, «io sono tutte e due, io sono australiano… quando sarò grande io andrò in Italia e farò l’italiano». Pensa che l’Italia sia vacanza continua.
Sentono i nonni?
SS: Quando erano vivi i miei genitori, ogni giorno. Hanno degli zii che erano molto presenti via Skype, adesso sentiamo poco tutti. Quando la nonna paterna è rimasta bloccata per otto mesi qui i bimbi erano molto felici. Il loro italiano comunque è legato ai viaggi.
Il cibo è italiano?
SS: Sono molto orgogliosi, hanno convertito tutti i loro amici. Il bambino cinese dice: «a me non mi piace il cibo cinese, voglio mangiare a casa di Tommaso».
Secondo voi questa generazione di nuovi bambini come si differenzia rispetto alla seconde generazioni del secondo dopoguerra?
SS: Sono dei bambini internazionali, molto più aperti, si identificano con varie culture. Leonardo ci prega di portarlo a Parigi. «Adesso – chiede – sono diventato anche francese?». Sono a loro agio e molto curiosi delle varie culture. Il migliore amico di Tommaso è israeliano. È una generazione che non sente l’italianità come un impiccio, o zavorra, ma ne è orgogliosa.
SB: Quello che ho notato in altri genitori italiani, ad esempio, quelli presenti in gruppi su whatsapp e su FB è questo. Alcuni hanno il coniuge o partner australiano, e i loro figli hanno una piccola infarinatura di italiano. Però, collettivamente hanno ricreato momenti di socialità che ricordano quelli dei primi del Novecento: i picnic, le partite a calcio, le gite. Quello che manca è la solidarietà di classe, o di mestiere. Ora è più l’aspetto ludico, del tempo libero, che conta. Non sono quasi mai impegnati in politica o inseriti nella comunità storica. Alcuni hanno la cittadinanza australiana e sono arrivati in Australia negli ultimi 15 anni. Trovano sfogo nei prodotti italiani, come il panettone, il prosciutto, il prosecco. Mettono insieme cibo, cinema e altro. e cercano di ricreare una socialità all’italiana. Sono più isolati rispetto agli emigrati storici perché non esiste più un quartiere “italiano”, sono dispersi nel territorio, come noi. Si creano comunità virtuali su WhatsApp in cui parlano molto delle famiglie e dei prodotti italiani, non li vedo come testa di ponte come gruppo per partecipare alle elezioni del Comites, ad esempio. Anche perché i loro bisogni – parlo soprattutto di chi è ben inserito nella società locale – sono in gran parte soddisfatti. Queste comunità virtuali ricreano una pseudo collettività italiana con tutti i pregi e difetti dei social media in cui si discute di tutto e di più, in cui interagiscono varie generazioni.
Prima gli stati di accoglienza transoceanici cercavano di integrare gli immigrati ora cosa pensi che faccia l’Australia?
SB: Negli ultimi quindici anni è cresciuta in maniera esponenziale la domanda e la concessione di visti temporanei. La stragrande maggioranza di chi è arrivato negli ultimi decenni, è entrato e uscito con un visto temporaneo. Il termine immigrati è un vocabolo sempre più obsoleto. C’è chi arriva direttamente con un visto di permanenza illimitata, ma i più arrivano come temporanei e sono una minima parte di questi ottiene la tanto agognata ‘PR’ (permanent residency) dopo alcuni anni.
Ma ci sono politiche di integrazione?
SB: Una volta ottenuta la PR, inizia l’integrazione vera e propria con l’accesso a vari servizi, in primis quello sanitario. Non c’è un’integrazione forzata.
SS: I tentativi di non farsi integrare come il nostro di mandare a una scuola bilingue ci fa stare bene, è la nostra resistenza, il nostro statement.
SB: È come se viaggiassimo mentalmente in Europa. È la nostra via di fuga. Essendo culture simili ti senti meno solo. Abbiamo anche amici di retaggio non italiano. C’è il francese, il nordafricano… e questo è un contrafforte rispetto alla cultura dominante anglofona. Risentiamo delle scelte fatte in Inghilterra con la Brexit. Anche qui si è rafforzato il vincolo con l’ex madre patria, la Gran Bretagna. In qualche maniera, forse, anche il fatto della chiusura dei programmi di lingue da noi si collega con la Brexit. Il mondo anglofono non marcia compatto, ma in qualche maniera si sente l’effetto Brexit. Abbiamo un governo conservatore, due primi ministri australiani nati in Inghilterra... L’influenza è molto forte. Quello che succede in Inghilterra, prima o poi arriva qua.
SS: La cosa che mi mancherebbe di più dell’Australia, se dovessi tornare in Italia, è la dimensione internazionale che sta diventando per me importantissima, la cosa più bella che ho trovato. E quasi irrinunciabile.
SB: Le nostre frequentazioni in Italia, a Torino e a Milano, che sono più vicine all’Europa, risentono di questa cultura di internazionalità. Questo sentimento di internazionalità è percepito nelle comunità degli expat italiani.
SB: Due fenomeni che ho notato è che moltissimi australiani (canadesi, statunitensi) di origine italiana portano con sé ancora questa vergogna del parlare italiano, magari si vestono italiano ecc, ma gli italodiscendenti di lingua e cultura italiana hanno un livello di lingua molto elementare, un italiano scimmiottato, a causa della bassa istruzione dei genitori che non gli hanno dato il modello.
SS: So che i sociologi tendono a generalizzare e che la terza generazione è quella che si libera dal giogo della valigia di cartone, e ha il lusso di imparare la lingua dei nonni e dei bisnonni. Ad esempio, il tutor di matematica di nostro figlio è di origine metà italiana e metà cinese. Lui non ne sente il bisogno, dice: «parlo un po’ di cinese, ma l’italiano già lo parlava male mio padre, non lo ha passato». Gli australiani di discendenza italiana si stanno assimilando. Bisogna puntare sull’elemento principe che è la lingua.
Quindi ritenete che l’italicità è nella lingua?
SS: Lingua e cultura, ma se avessimo trasmesso la cultura senza la lingua non sarebbe lo stesso. Se fossimo al Casinò le fiches le metterei lì. Perché non c’è a Melbourne la scuola bilingue italiana come a Sydney? La comunità italiana storica non favorisce questo tipo di scuola.
SB: Paradossalmente una scuola bilingue la metterebbe in questione. La comunità si troverebbe costretta a riconoscere che il loro italiano non è all’altezza.
SS: La nostra teoria è che forse un modello francese come questo sarebbe l’ideale, collegato come è con l’istituto di cultura, il festival del cinema francese. C’è un microcosmo che gira attorno alla scuola interessante e anche commerciale, ma non parte perché segnerebbe un cambio di passo che metterebbe a nudo che le scuole di italiano un po’ così che non servono a imparare la lingua basata su manifestazioni di un’italianità legata alla cucina, molto limitata e limitante, che non fa veri proseliti. La scuola francese è un volano che ha decine e decine di studenti, qualche centinaio all’anno, che la tengono viva. E ci sarebbe anche domanda per una scuola bilingue italiana, ma non c’è l’offerta. Poi si arriva al paradosso che, almeno fino a qualche anno fa, si avevano giovani italiani che lavoravano qua per delle ditte, ma per loro l’imperativo era insegnare l’inglese ai figli.
Nei paesi anglofoni la priorità è questa: nei blog di mamme e genitori si scrive che vogliono insegnare ai figli l’inglese, comprano libri in inglese…
SB: Perché hanno in mente di tornare. Quando dicevamo che parlavamo italiano ci dicevano siete matti. E se tornate in Italia? Il problema è questo: e se poi rimani? Parlare ai figli in inglese, che non è la mia prima lingua, mi pareva una forzatura. L’italiano è la lingua dell’intimità, degli affetti. Non posso mica trattare mio figlio come uno studente. Quando il partner non è di madrelingua italiana si entra in un’altra casistica, ma il rischio di vedere i figli come studenti. Uno dei falsi miti è che i bambini apprendono subito la lingua.
SS: Mio nipote che ha quattro anni (padre italiano, madre australiana), un giorno è venuto a casa nostra. Gli ho parlato in italiano per vedere cosa succedeva e lui mi ha risposto: «I don’t speak that». Ho notato che non c’era da parte della madre un gran entusiasmo a trasmettere la lingua del padre… Abbiamo poi il caso di una nostra amica australiana, che parla benissimo italiano, è stata in Italia dall’età di 16 anni. È stata folgorata dalla lingua e dalla cultura italiana e ha deciso di parlare italiano alla figlia nata in Australia. Poi si è separata; il padre australiano non aveva mai approvato questa scelta perché si sentiva escluso. La bambina è andata un po’ a scuola in Italia: parla italiano, ma non è tranquilla, lo collega a dinamiche familiari complesse. La lingua può essere un motivo di orgoglio, ma anche di divisione e tensione.