Vuoi raccontare la tua esperienza di emigrazione in Australia che inizia nel 1962?
Io sono arrivato nel 1962 assieme a miei genitori per raggiungere mio fratello che era arrivato qui nel 1955, con l’idea di rimanere qui per due o tre anni e poi ritornare a Trieste. Il che ovviamente non accade a nessuno. Quando scrissi il libro Trieste va in Australia intervistai un triestino che era andato da Trieste in Australia ben 17 volte, non essendo capace di decidere se rimanere qui o a Trieste, e faceva la spola tra le due città in costante angoscia di non trovarsi mai a proprio agio in nessuna delle due città. Io arrivai qui nel 1962 con i miei genitori, a 21 anni, e incominciai a lavorare in una ditta italoaustraliana, la Electric Power Transmission, dove rimasi per 23 anni e nello stesso tempo mi iscrissi all’Università di Sydney per un master, lavorando di giorno e andando all’Università di sera. Io dicevo sempre che il mio lavoro era il mio hobby e l’Università era il mio lavoro.
Poi mi laureai all’Università di Sydney con il ba sulle relazioni diplomatiche tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica tra il 1941 e il 1942, essendo quel periodo molto interessante perché l’Italia era in lizza con la Germania nazista per la supremazia economica nei Balcani. C’era molto interesse di escludere dai Balcani la Germania nazista. Volevo fare un Master, volevo farlo su un primo ministro italiano, ma i microfilm dovevano arrivare dagli Stati Uniti e non arrivavano mai, dopo alcuni mesi il mio supervisore Richard Bosworth mi disse: «Guarda, tu sei italiano, ci sono molti italiani qui: nelle soffitte, negli armadi avranno molti documenti, va in giro e intervistali. È stato l’inizio di un’esperienza cinquantennale, di lavoro sull’emigrazione italiana in Australia. Al momento sto lavorando su una cosa interessante, la persecuzione delle minoranze in un paese avente una minoranza che non viene tollerata a causa della sua differenza. Ad esempio, l’Italia fascista nel 1922 ereditò una minoranza slovena di ben 330.000 persone e fece una politica di pulizia etnica, una storia di genocidio culturale, cercando di assimilare gli sloveni all’Italia fascista. In Australia nel 1947 ci fu anche una politica di assimilazione, perché vennero ben 300.000 italiani, oltre che migliaia di immigrati da altri paesi. Il governo australiano volle assimilare queste persone, fargli dimenticare la propria lingua, la propria cultura, il loro passato, il loro retaggio. Fu un esperimento che fallì come fallì anche quello in Slovenia. Volevo fare uno studio su queste due esperienze molto simili, ma anche differenti. Ebbero entrambe una fine ingloriosa perché in Australia oggi gli immigrati italiani non si sono assimilati, si sono integrati e bisogna qualificare cosa si intende per integrazione. Sto lavorando sugli archivi italiani e sono in contatto con i maggiori studiosi sloveni sull’esperienza italiana perché c’è un vuoto di contatti tra le due comunità scientifiche. È una storia che spero di finire venendo in Italia per visitare gli archivi italiani e sloveni. Non so lo sloveno, mio padre invece, nato durante il regime austroungarico, ha fatto la scuola in tedesco e poi sposò in prime nozze una donna di Belgrado che parlava serbo-croato. Mia madre parlava pure il serbo-croato e quando discutevano, parlavano in tedesco o sloveno o serbo-croato e io non li capivo. A Trieste c’è un detto che anche la persona più stupida parla correttamente 4 lingue.
L’immigrazione italiana in Australia è il prodotto dell’incrocio, dello scontro di culture o di scontri di culture. Come sapete Trieste è stata amministrata dagli anglo-americani dal 1945 al 1954. Quando ci fu l’accordo italo-sloveno raggiunto con il Memorandum di Londra, ben 10.000 triestini che lavoravano per il governo alleato e altri 10.000 triestini che lavoravano per l’amministrazione angloamericana si trovarono disoccupati. Nel 1953-58 ben 20.000 triestini vennero in Australia. Il 10% della popolazione. Questo fu un fenomeno insolito, non ci sono casi simili, a meno che non andiamo nell’Ottocento in Argentina. Non c’è un caso simile nella storia delle migrazioni per ragioni principalmente politiche, oltre che economiche. Quando l’Italia riacquistò l’amministrazione di Trieste, la Polizia Civile era malvista a causa delle attitudini politiche manifestate dai suoi componenti, ostili alla nuova amministrazione italiana. Non venne loro garantito un lavoro, gli venne solo promessa una trasferta nell’Italia meridionale. I triestini allora scelsero l’Australia. Poi ci fu un fenomeno di ritorno negli anni 1970-80 a Trieste, e i triestini reduci dall’Australia si sono reintegrati. Ma la maggior parte è rimasta. In Australia c’era già una componente italiana emigrata prima della Seconda guerra mondiale di circa 33.000 italiani, ma l’emigrazione di massa si ebbe dal 1947 in poi. Molti gli apolidi, tra cui molti esuli dell’Istria e della Dalmazia che dovettero scappare da quei territori alla fine del 1945. E da 1947 i cittadini di Pola emigrarono in massa e in parte vennero in Australia. La maggior parte trovò lavoro in alcune ditte italiane. Nel 1949 la Electric Power Transmission assunse per la maggior parte operai italiani perché il proprietario era italiano e aveva un sistema di lavoro italiano, offriva alle persone una mensa italiana. Anche io, quando iniziai a lavorare nel 1962 per questa ditta, avevo un pasto di tre portate al giorno per un prezzo irrisorio. Gli italiani che lavoravano a costruire le linee elettriche lavoravano in un ambiente italiano dove si parlava in italiano e si mangiava in italiano. A fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta ci furono parecchie ditte di costruzioni civili che assunsero italiani e mantennero un sistema di lavoro italiano. Allo stesso tempo io lavoravo come trasport manager. Avevo fatto gli studi all’Università di Sydney e nel 1978 divenni membro del Consiglio di Amministrazione di un’associazione culturale italiana che si chiamava Frederick May Foundation, dal nome del primo detentore della cattedra di italiano all’Università di Sydney, che iniziò nel 1976. Iniziammo un programma di scambi culturali con l’Italia, invitando in Australia i maggiori esponenti della cultura italiana che precedentemente arrivavano in Australia attraverso la mediazione inglese. Nel 1978 organizzammo il primo congresso della fondazione, invitando 25 studiosi italiani. Io invitai Renzo De Felice che conoscevo bene, Giuliano Procacci, Giorgio Spini, Luigi Alberoni e altri. Nel 1980 venne Umberto Eco. Ci fu una fioritura di studi italiani in questo paese. Lasciato il mio lavoro nel 1985, trovai lavoro nel Ministero della Cultura dello stato, il cui ministro era il Premier del New South Wales. Arrivavano sul mio tavolo tutti i programmi italiani, il Premier mi mandava tutte le cose italiane, quando andava in vacanza in Italia e mi chiedeva cosa dovesse vedere. Lì iniziai programmi culturali con l’Italia, iniziai uno scambio di architetti con Venezia, un architetto italiano veniva in Australia e un australiano andava a Venezia a discutere di problemi di sviluppo di architettura o di environment che potevano interessare. Questo programma durò 9 anni e finì quando lasciai il Ministero nel 2003.
Sono gli anni in cui sei entrato nel Comitato Scientifico di Altreitalie?
Sì. C’era interesse da parte dello stato per gli scambi culturali. Tra parentesi in quel periodo facevo parte della delegazione australiana per il rinnovo dell’accordo culturale tra Italia e Australia. Venni a Roma nella delegazione e più tardi nel 1992 feci parte della delegazione australiana a Canberra quando la delegazione italiana venne in Australia. Fu interessante perché si cercò di stimolare lo scambio, ma non si andò molto avanti per mancanza di fondi. L’idea era di avere un istituto australiano di cultura in Italia.
Sei naturalizzato australiano?
Si, dal 1970. Non ho la doppia cittadinanza perché allora per acquisire la cittadinanza australiana dovevi rinunciare alla cittadinanza italiana. Solo nel 2004 è stato fatto un accordo per la doppia cittadinanza. Per riottenere la cittadinanza italiana dovrei vivere in Italia per un anno. Pochi lo fanno per ragioni economiche.
Puoi raccontarci dei tuoi figli?
Ho due figli, Emilio nato 1990 e Raffaella nel 1992. Hanno studiato qui, Emilio a Sydney e Raffaella all’Università di Melbourne dove fa un PhD in criminologia. Fa una ricerca sulla violenza contro i disabili. Emilio lavora in una ditta che assiste i disabili, ma è un fotografo. È arrivato finalista in molte mostre, la sua passione è quella di fotografare cose desuete, ad esempio le discariche, le auto rottamate. Lavora per molti progetti per l’ambiente: fotografa le macchie d’olio lasciate dalle auto. Ha una grande passione.
Come vi siete comportati nell’educazione dei figli rispetto all’Italia, lingua, cultura viaggi?
Non li abbiamo mai forzati a imparare la lingua o ad acquisire elementi della cultura italiana, ma già da giovani hanno mostrato di avere un interesse. Ad esempio Emilio si interessa della cultura. Quando nel 2005 siamo venuti tutti quanti in Europa, visitando Francia, Italia, Grecia ed Egitto, Emilio era interessato ai musei. Ricordo che quando eravamo a Roma, alla fine dei 4 mesi eravamo rimasti in albergo per giorni ed Emilio venne da me e mi disse: «Cosa non va, siamo da 4 giorni qua e non abbiamo visto né un museo né una galleria». A causa di alcuni problemi di salute, non ha mai imparato l’italiano. Ma facciamo interminabili discussioni sulla storia. Raffaella è invece portata alle lingue. Anni fa avevamo ospitato la figlia di amici veneziani e Raffaella, a 13 anni, andò poi a Venezia per 3 mesi: sapeva solo 2 o 3 parole di italiano e quando tornò a Sydney parlava italiano. In seguito vinse una borsa di studio del governo italiano per frequentare l’Università a Torino. Parliamo in italiano quando è a casa.
Quindi hai scelto di non insegnare ai tuoi figli l’italiano?
Emilio non poteva, era troppo pesante, però quando ero al Ministero andavamo a conferenze e mostre e presentazioni in italiano e loro venivano. Anche con mia moglie, di origini inglesi, parlavamo in inglese. Lei ha avuto un’esperienza culturale italiana: per 10 anni è andata a Venezia per la Biennale per occuparsi del padiglione australiano. Raffaella ha facilità con le lingue. Adesso ha un ragazzo di Hong Kong e sta imparando il cantonese. In italiano non ha accento straniero. Adesso a Melbourne abita vicino al Museo italiano e va a sentire le conferenze.
A Sydney ci sono la scuola italiana, la Dante Alighieri, l’Istituto Italiano di Cultura, la Workers’ Educational Association, fondata nel 1916 che insegna anche l’italiano. Io ci ho insegnato per dieci anni. Mia moglie ha studiato l’italiano a Roma presso la Scuola Leonardo e ora studia a distanza perché ora è chiusa a causa della pandemia.
Praticamente la mia vita è stata sempre concentrata sulla ricerca storica dell’emigrazione italiana e sulle relazioni italoaustraliane e, anche, a frequentare le attività italiane organizzate dal co.as.it. Non tanto dalla Dante Alighieri, di cui fui membro del consiglio d’amministrazione per alcuni anni. Per la Dante venni in Italia per contattare le maggiori case editrici italiane per comprare libri a prezzo scontato. Li portai in Australia e feci una settimana di vendita di libri italiani che andarono a ruba. L’Alitalia li portò in Australia gratis. L’esperimento non venne però ripetuto. Avevo contatti con gli storici italiani, e per l’emigrazione italiana, con Gianfausto Rosoli. Si cercò di portare l’esperienza di queste persone in Australia. Io ero avvantaggiato perché lavoravo al Ministry of the Arts.
Ora cosa fanno la Dante Alighieri e l’Istituto Italiano di Cultura?
Vivacchiano. Quando ero alla May Foundation il mio pallino era di stabilire contatti internazionali che però in Australia vengono fatti dal Commonwealth, non dallo Stato. Mancò la volontà di aprire gli orizzonti con l’Italia. Poi tutti i premier australiani, col cambio di governo, i premier liberali non vollero acquisire il portafoglio della cultura e venne meno la volontà statale. Attualmente ci sono pochi scambi culturali con l’Italia.
C’è un altro elemento importante: l’immigrazione italiana in Australia raggiunse il suo apice nel 1972, quando c’erano in Australia 400.000 italiani di prima generazione, arrivati tra gli anni cinquanta alla fine degli anni settanta, poi l’immigrazione italiana cominciò a declinare. Oggi c’è solo immigrazione di giovani. L’importanza numerica degli italiani in Australia diminuì anche perché non riuscirono a entrare nelle stanze dei bottoni degli anglo-australiani al potere. Ci furono alcuni italiani che raggiunsero il livello di membro del parlamento come Franca Arena. O Paolo Totaro che fu uno dei due non anglosassoni a capo di un dipartimento statale, su 270. Ci fu un dislivello tra la rappresentanza politica e l’importanza economica e la realtà numerica. I maggiori punti di pressione vennero fatti da persone italiane che acquisirono importanza economica, come Franco Belgiorno-Nettis, il capo della Transfield, che fu una potenza economica fino agli anni 2020. Tutti i politici australiani lo chiamavano il mio caro amico. Fu tra i fondatori dell’Opera House e del padiglione australiano alla Biennale di Venezia. Lui aveva i contatti politici più importanti.
C’è qualche relazione tra le mobilità degli anni 2000 e le vecchie?
Bisogna tener presente che emigrare in Australia oggi è quasi impossibile, a meno che tu non abbia 5 milioni di dollari. Molti immigrati cinesi hanno le porte aperte perché arrivano con un patrimonio considerevole. La migrazione italiana di giovani è molto importante, benché siano qui per un periodo breve, di un anno o due se non hanno un datore di lavoro che ne garantisca la permanenza, e quando acquisiscono un visto a lungo termine, o di permanenza, si inseriscono nell’economia australiana. Mia moglie lavora con un architetto tedesco che assume molti giovani italiani e italiane che lavorano per lui e che sperano di acquisire un visto permanente per rimanere in Australia. Molti lavorano nell’industria e nel turismo, ma anche in lavori più umili come nei bar, nei caffè e nei ristoranti cercando di acquisire la permanenza. Sono oltre 20.000 in Australia e cercano di inserirsi.
Quali sono le principali differenze tra le famiglie dei nuovi immigrati, con quelle degli anni sessanta e settanta?
La vita negli anni settanta, e in parte degli anni ottanta, era molto più difficile in Australia, anche se esisteva il problema del lavoro, lo trovavi subito. I lavori che trovavi erano lavori fissi per tutta la vita, cosa che è ormai scomparsa. Pertanto la vita allora era più facile, ma anche più difficile perché il razzismo era molto più presente, più evidente. Gli italiani erano bersaglio del razzismo australiano, avevano combattuto contro gli australiani. Vennero come nemici. Questo antagonismo scomparve presto, ma rimase il pregiudizio perché non erano inglesi. Ora questo atteggiamento c’è verso i cinesi o gli arabi o i libanesi, ma non verso gli europei. Gli italiani in Australia di seconda generazione, a mio giudizio, non hanno un legame affettivo con l’Italia. Il ritorno alla cultura di origine riappare alla terza generazione quando mandano i figli a studiare italiano. Molti della terza generazione hanno una laurea si inseriscono più facilmente. I nonni continuano a parlare in italiano o in dialetto, che è ancora molto diffuso. Anche i triestini mantengono il loro dialetto, parlano in italiano con gli italiani di altre regioni. La maggior parte delle persone che studiano italiano sono australiani, con una minoranza di figli di italiani che studiano l’italiano o perché vogliono capire i loro genitori, che parlano solo il dialetto, oppure parlano il dialetto pensando che sia italiano. Quando insegnavo italiano chiesi a una giovane coppia di siciliani perché volevano imparare l’italiano, parlavano in dialetto pensando che fosse italiano.
La comunità non credo che esista a Sydney, forse a Melbourne. Negli anni sessanta, settanta, ottanta era concentrata ad Leichhardt e nei sobborghi intorno a Haberfierld, ma negli anni settanta si disperse quando divenne benestante. A Melbourne sono rimasti concentrati a Coburg, parli italiano quando vai a prendere un caffè a Carlton, dove i giovani che fanno i camerieri sono immigrati da pochi anni.
L’emigrazione di richiamo fu più forte a Melbourne, dove c’era più lavoro e maggiore coesione nella città. I legami tra le vecchie e le nuove migrazioni ci sono, ma attraverso i camerieri dei locali italiani. Oggi, in Australia, gli italiani numericamente sono una minoranza Nel 1972 c’erano 400.000 italiani di prima generazione, altri 20.000 di seconda, 50.000 di terza. Oggi ci sono solo 199.000 italiani di prima generazione. E non c’è più un rimpiazzo generazionale. Il tasso di natalità in Australia è diminuito e anche i giovani discendenti hanno 1 o 2 figli. I figli del boom qui oggi sono libanesi o arabi.
Tornando alle nuove mobilità, le tipologie sono diverse la catena migratoria della gastronomia che prosegue, poi abbiamo gli work holiday visa e i qualificati.
Non abbiamo più una classe operaia, né una coscienza di classe Non esiste un sindacato, prima era obbligatoria la tessera sindacale. La forza lavoro non ha più potere decisionale, siamo passati al negoziato diretto.
Cosa è rimasto delle associazioni di un tempo e che rapporto ha con le nuove mobilità
La fioritura degli anni del dopoguerra non esiste più. Nel 1980 c’erano 460 circoli, oggi si contano sulle dita di una mano. I giuliano-dalmati hanno solo una decina di membri nei propri circoli. Lo stesso per i pugliesi Non esiste più l’associazionismo italiano. C’è ancora il club Marconi dove gli italiani vanno per vivere in un ambiente italiano, ma è frequentato molto da stranieri. Non c’è più un associazionismo di massa. Anche perché i giovani non frequentavano quasi mai i club, perché c’erano solo i vecchi. Volevano essere più australiani degli australiani. Terzo, non capivano i vecchi perché parlavano il dialetto. C’era una rottura sia linguistica che culturale. Il giovane italiano non andava nei club italiani negli anni sessanta e settanta, andava piuttosto nel circolo australiano dove c’erano le ragazze. A Sydney potrei nominarne solo 3 o 4 circoli italiani ancora in esistenza.
Non esistono più nemmeno le associazioni religiose, mancano i vecchi che le tenevano in piedi. Per i giovani italiani si creano legami sociali non più sotto una cupola organizzata dai vecchi, si aggregano più per interessi che per etnia. L’Australia è un paese in cui si creano legami individuali. Non c’è interesse per la politica. Negli anni sessanta arrivarono i giovani del ‘68 che cercavano di fare politica. La Filef morì nel 1991 con la caduta del Muro di Berlino. I militanti del Partito comunista italiano in Australia si sono dedicati ora alla difesa dell’ambiente. Ancora oggi la Filef sopravvive non avendo più un’ideologia.
Ma non ci sono organi di assistenza, come il coasit e il Nomit, per i giovani italiani in difficoltà?
Ma raggiungono solo poche persone. I giovani italiani parlano inglese e possono inserirsi più facilmente. Negli anni 70 arrivavano e non sapevano l’inglese. Oggi quelli che sono arrivati devono sapere l’inglese. Oggi sperimentano un ambiente completamente diverso. La partecipazione ai partiti politici australiani è molto debole Negli anni sessanta c’era la mobilitazione contro la guerra del Vietnam. Oggi le grosse manifestazioni sono solo per l’ambiente o contro la violenza contro le donne. Quando finii di scrivere il mio libro sui comunisti italiani a Sydney tra il 1971 e il 1991, fui motivato dal fatto che Diego Novelli venne in Australia a creare una sezione del Partito. Una cosa impensabile nella realtà odierna. I problemi oggi sono diversi: lavoro, casa, solitudine, insicurezza.
Adesso col coronavirus è cambiato tutto. L’immigrazione non esiste più in Australia. Fino all’anno scorso il paese ospitava 200.000 nuovi arrivi e c’erano 200.000 studenti cinesi e 160.000 indiani che generavano altra immigrazione, per un giro di 40 miliardi di dollari australiani. Adesso stanno cercando un sistema per favorire alcuni studenti cinesi per venire a studiare nelle Università Australiane.
Adesso non ci sono aerei nemmeno per le espulsioni.