«Le scrivo in nome di un gruppo di italiani lavoratori agricoli in Svizzera, onde lei ci possa dare una indicazione precisa e come dobbiamo fare affinché i nostri diritti siano riconosciuti [...] Alla nostra partenza dall’Italia ci fu detto che le ore lavorative erano di 8 giornaliere [...] Invece con nostra grande sorpresa ci vediamo costretti a fare dalle 13 alle 14 ore giornaliere». Così il 15 settembre 1952 un bracciante, Gino Badolan, si indirizzava da Nyon a Giuseppe Di Vittorio («Caro papà Di Vittorio...». Lettere al segretario generale della cgil, a cura di Myriam Bergamaschi, Milano, Guerini e Associati, 2008, pp. 286-87). La corrispondenza rappresenta una richiesta di aiuto a una delle massime autorità in campo sindacale, l’allora segretario generale della cgil, ma anche il riconoscimento del peculiare impegno e competenza di Di Vittorio sulle questioni dell’emigrazione. Grazie al lavoro di Michele Colucci possiamo ora apprezzare pienamente questa dimensione dell’opera del sindacalista pugliese, documentata negli scritti raccolti in un’utile antologia (alla quale fa difetto solo un indice dei nomi e dei luoghi). Ad esempio, l’importanza delle corrispondenze con gli emigrati e con le loro famiglie risalta sin dai primi paragrafi delle conclusioni del iii congresso della cgil (Napoli, 1952), laddove Di Vittorio cita le «parole veramente strazianti» della «madre di un emigrante in Australia» che aveva venduto tutto riducendosi «nella più grande miseria» per pagare il viaggio al figlio, che però si era presto ritrovato disoccupato: quelle parole dimostravano «l’impossibilità materiale, nella situazione attuale del mondo, di una emigrazione di massa»; dunque per Di Vittorio non aveva senso «parlare […] di emigrazione come via di uscita alla nostra disoccupazione» (p. 172). Come ricostruisce lo stesso Colucci nella densa introduzione all’antologia, la posizione degli anni cinquanta, riassunta nei brani citati, risentiva del contesto politico nazionale e internazionale, ma rappresentava anche l’approdo di una lunga esperienza di confronto con i problemi umani e politici posti dalle diverse forme di mobilità dei lavoratori.
La peculiare sensibilità era maturata in Di Vittorio, nato a Cerignola nel 1892, sin dall’esperienza di giovanissimo bracciante e poi di organizzatore sindacale nella Puglia del primo Novecento: epicentro di un grande sistema migratorio sin dall’età moderna, nel Tavoliere la mobilità si era intensificata in seguito alle trasformazioni agrarie ottocentesche. Ai movimenti, anche ampi, dettati dalla stagionalità dei lavori si erano sommati gli appelli padronali ai lavoratori dei paesi adiacenti, per pagare salari inferiori a quelli contrattati localmente o per garantire la manodopera in caso di sciopero. Di fronte ai conflitti interni alla classe, determinati dalla gestione padronale della sovrabbondanza di offerta di lavoro, la prima reazione, attestata in tutta Europa e ricordata anche nel primo dei testi qui raccolti (1914, p. 4), era solitamente l’imposizione della preferenza locale, che permetteva di rivolgersi a braccianti «forestieri» (cioè di comuni o frazioni vicine) solo una volta esaurito il reclutamento di manodopera locale. Ritornando sui problemi storici del movimento sindacale, ancora nel 1955 Di Vittorio insisteva: «la prima esigenza, elementare e imperiosa, dalla quale nacque l’idea della coalizione degli operai – il sindacato – fu quella di eliminare la concorrenza tra i lavoratori» (p. 188). Tuttavia la preferenza locale non era certo sufficiente: non a caso le «migrazioni interne» furono al centro delle preoccupazioni della prima Federterra e dello stesso partito socialista, poiché legate, in positivo, alla soluzione del problema della disoccupazione, ma anche, in negativo, alla creazione di un eccesso di manodopera che introduceva lacerazioni fra i lavoratori e indeboliva le leghe. All’idea riformista del governo sindacale dei flussi, che aveva straordinarie assonanze con il tentativo di controllo della mobilità da parte delle corporazioni nella tarda età moderna (si veda anche Simona Cerutti, «Travail, mobilité et légitimité. Suppliques au roi dans une société d’Ancien Régime (Turin, xviiie siècle)» (Annales hss, lxv, 3, 2010, pp. 571-611), si affiancò da subito la richiesta, in una sorta di protokeynesismo di parte bracciantile, di lavori pubblici per allargare la disponibilità di «giornate» lavorative e alleviare sia la miseria che la concorrenza interna. La posizione di Di Vittorio accentuò invece la centralità dell’organizzazione sindacale: solo la diffusione della coscienza di classe e dunque l’azione dei lavoratori stessi avrebbe permesso di surrogare l’impossibile controllo della mobilità – un approccio che si fece ancor più esplicito riguardo alle migrazioni estere (si veda anche Michele Colucci, «Sindacato e migrazioni», in Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 593-608).
A quel nocciolo originario, teso a contrastare una mobilità vissuta come necessità e come minaccia, si unirono diverse esperienze successive, personali innanzi tutto (l’esilio svizzero nel 1914, i trasferimenti punitivi durante la guerra, il nuovo lunghissimo esilio dal 1926), ma anche politiche. In primo luogo Di Vittorio si impegnò nella denuncia del carattere ideologico delle politiche migratorie fasciste: migrazioni interne e «sbracciantizzazione», imperialismo demografico e colonizzazione agricola, «volontariato» in Spagna. Dopo un largo girovagare, nel 1937 riuscì a stabilirsi in Francia, dove intensificò il lavoro politico in seno all’emigrazione, grazie anche all’esperienza originale del giornale La Voce degli Italiani: la centralità del lavoro emergeva dall’attenzione allo «statuto giuridico», cioè alla regolarizzazione, e si sommava all’anticolonialismo e alla denuncia del razzismo fascista. Arrestato nel 1941 e consegnato alle autorità italiane, Di Vittorio restò al confino fino al 1943. Nel dopoguerra, ritrovò una situazione profondamente mutata, con i governi che promuovevano l’emigrazione, suscitando incertezze anche fra i sindacati. Anche da segretario della cgil, Di Vittorio fece tesoro delle posizioni maturate in Francia: occorreva scongiurare l’esodo di manodopera specializzata ed evitare paesi troppo lontani o dove fosse impedita l’organizzazione sindacale, ma impegnarsi anche affinché accordi precisi garantissero l’eguaglianza di diritti fra locali e immigrati. All’orizzonte, sostenuto alla conferenza dell’Organizzazione internazionale del lavoro di Montréal nel 1946, di un «pieno impiego sul piano internazionale» (p. 79), fece rapidamente seguito la presa d’atto della chiusura dei flussi e l’idea che una diversa politica economica avrebbe potuto e dovuto evitare l’emigrazione. Il «Piano del lavoro», proposto dalla cgil nel 1949-50, propugnava una massiccia serie di opere pubbliche e si accompagnava ormai all’assunto che l’emigrazione comportasse sempre «umiliazioni» per i lavoratori coinvolti (1950, pp. 145-46): se era un «male inevitabile», non avrebbe però dovuto essere «teorizzata» (1951, p. 153). Con un significativo ritorno ai temi della sua giovinezza, a quasi mezzo secolo di distanza, Di Vittorio prendeva atto che la stessa emigrazione interna si rivelava illusoria, se la disoccupazione imperversava in tutta Italia (1951, p. 151).
Solo nel decennio successivo alla scomparsa di Di Vittorio (1957), il sindacato italiano, puntualizza opportunamente Colucci, acquisì finalmente la centralità della questione migratoria e della mobilità del lavoro. Si trattò di un patrimonio prezioso, che avrebbe permesso, negli anni dell’inversione dei flussi e della transizione dell’Italia da paese di emigranti a terra di immigrazione, quella che il curatore definisce la «felice anomalia» di un sindacato che, nonostante le molte sollecitazioni alla chiusura protezionistica sui «nativi», cerca di organizzare gli immigrati e di mediarne l’integrazione, poiché percepisce la mobilità come elemento strutturale delle attuali dinamiche sociali.
Michele Nani