«Di tutto, questo è rimasto: l’aver vissuto e l’aver lottato. Questo sarà il guadagno del gioco, anche se sarà perso l’oro della posta». Le parole che Jack London colloca in apertura al racconto L’amore della vita tornano in mente a proposito delle vicende di Felice Pedroni. Viene, infatti, spontaneo immaginarsi Pedroni come uno dei personaggi della narrativa di London, che rese celebre la corsa di migliaia di individui verso il «Grande Nord» alla ricerca dell’oro nelle terre selvagge del Klondike, tra il Canada e l’Alaska. Se non altro perché anche Pedroni, tra Otto e Novecento, partecipò a questa seconda epica Gold Rush verso il fiume Yukon – la prima era stata quella dei 49ers verso l’American River in California – e la sua vita, come si evince dall’appassionata ricostruzione di Claudio Busi, non fu priva delle asperità tipiche dei racconti dello scrittore americano. Eppure, la figura del «cercatore d’oro» sta in un certo senso stretta al protagonista. Non a torto, nella prefazione, l’autore precisa che Pedroni – ribattezzato oltreoceano con il nome di Felix Pedro – fu anzitutto un emigrante, originario della provincia di Modena, le cui vicissitudini sono collocabili nell’«epopea» dell’emigrazione negli Stati Uniti.
L’esperienza di Pedroni assomiglia a quella di molti comuni emigranti di fine Ottocento, molti dei quali, come affermò Frank Thistlethwaite, non intraprendevano un viaggio di «sola andata» oltreoceano, ma compivano migrazioni «estensive» che implicavano molteplici destinazioni temporanee (xie Congrès International des Sciences Historiques, Rapports v, Goteborg-Stockholm-Uppsala, Almiquist & Wiksell, 1960, p. 41). Pedroni, infatti, prima di approdare a New York, era stato in Francia a lavorare nelle miniere di carbone. Dopo un breve rientro in Italia, si diresse negli Stati Uniti, a ovest, dove trovò un impiego nelle miniere di Illinois, Colorado e Utah. Ciò che Pedroni «sapeva fare meglio» (p. 49), scrive Busi, era il minatore, un’occupazione dalla quale cercò di liberarsi dandosi all’agricoltura in Oklahoma e all’attività di taglialegna nello Stato di Washington.
Il nucleo centrale del libro (capitoli iv-viii) è dedicato alla «corsa all’oro», accuratamente descritta a partire dalla geografia del territorio, anche se l’assenza di carte topografiche adeguate rende difficile apprezzare a pieno i dettagli. Busi ricompone il mosaico di spedizioni che, primavera dopo primavera, si susseguirono a partire dal 1894, quando, per la prima volta, Pedroni e altri compagni di ventura raggiunsero Forty Mile, il campo base per i cercatori d’oro dello Yukon. Benché il lavoro sui torrenti fosse individuale, la spedizione, dalla raccolta dei fondi per condurla all’individuazione della zona da perlustrare, veniva affrontata in gruppo. Dopo alcuni anni l’emigrante modenese trovò le prime tracce di oro lungo un affluente del fiume Tanana; tuttavia, non riuscendo nelle spedizioni successive a rinvenire la posizione della scoperta, altrettanti anni passarono alla ricerca di questo «torrente perduto» (p. 71). Il «grande giorno» (p. 112) per Pedroni arrivò nel 1902, mentre passava al setaccio quello che oggi prende il nome di Pedro Creek. Venti chilometri più a Sud, dove il fiume Chena confluisce nel Tanana, sarebbe sorta di lì a poco la città di Fairbanks, di cui l’italiano fu tra i fondatori.
Le fonti impiegate da Busi sono prevalentemente la stampa locale, i censimenti e i registri minerari in cui sono datate le «concessioni», vale a dire il riconoscimento da parte delle autorità distrettuali del diritto di scavo in una determinata area. A esse si aggiungono una tesi di laurea, redatta nel 1929 da Genebieve Alice Parker, che si avvalse della testimonianza diretta di uno dei compagni di Pedro, e gli atti di alcuni procedimenti giudiziari in cui quest’ultimo fu coinvolto.
Pedroni, morto appena otto anni dopo aver trovato l’oro, non riuscì mai a godere dei frutti della sua scoperta, poiché prima la donna che aveva sposato e poi l’amico e socio di una vita Auguste Hanot, fiutando i possibili lauti guadagni che sarebbero derivati dalle sue concessioni, lo trascinarono in tribunale con accuse pretestuose. Questa è l’interpretazione che Busi offre nell’ultima parte del libro (capitoli ix-xii), dedicata alla fase finale della vita e al mistero sulla morte di Pedroni. Il problema dell’enigmatica sepoltura di Pedroni, avvenuta in forma quasi nascosta, in un cimitero alla periferia sud di San Francisco, viene intrecciato da Busi con la rievocazione del primo progetto di ricerca che andò sulle tracce dell’emigrante modenese e ne rinvenne la tomba alla fine degli sessanta. Traslata la salma in Italia nel 1972 e disposta l’autopsia, questi primi ricercatori conclusero che Pedroni era stato assassinato, salvo poi non lasciare traccia alcuna delle prove da loro rinvenute a sostegno di tale ipotesi.
La tradizione orale, legata ai compagni e ai luoghi di origine dell’emigrante modenese, sostiene la tesi dell’assassinio, forse ad opera della moglie o degli altri suoi avversari. Busi, tuttavia, non sfrutta a pieno il valore delle fonti orali, che sembra relegare al rango di «dicerie» da discernere dalla «realtà» degli eventi che egli intende ricostruire (p. 20). Come, invece, suggerisce Alessandro Portelli, in una testimonianza orale «quello che le persone credono o desiderano credere […] è altrettanto importante di quello che ricordano “correttamente”» (America profonda, Roma, Donzelli, 2012, p. xxi). Pertanto, un’analisi approfondita del farsi nel tempo della «leggenda» di Pedro avrebbe arricchito una ricerca che a tratti appare troppo volta alla mera ricostruzione cronologica delle vicende biografiche.
Il libro di Busi, infatti, è incentrato sulla successione degli eventi e sul vaglio sistematico delle testimonianze relative. È sì un’indagine storica, ma le conclusioni raggiunte su Pedroni non sono collocate in modo adeguato in un contesto di interazione tra migrazione transoceanica e colonizzazione del Nord-Ovest, al quale sono riservate solo le poche pagine del primo capitolo. Vengono pertanto tralasciati elementi che lo storico avrebbe apprezzato come, ad esempio, la comunità dei minatori italiani in cui si mosse il protagonista. Anche il sostanziale fallimento di Pedroni è ricondotto unicamente a un tratto caratteriale, la mancanza di «scaltrezza» (p. 211), senza che l’autore prenda neppure in considerazione la difficoltà dei processi di integrazione, che risulta invece dalla testimonianza dello stesso Pedroni, il quale, di fronte al giudice, affermò che la moglie «calunniava lui e la sua famiglia chiamandoli dagoes» (p. 170).
Va, però, riconosciuto a Busi il merito di aver indagato un’area di destinazione, l’Alaska, decisamente trascurata dagli studiosi e di aver ricostruito la vita di Pedroni senza cedere a tentazioni celebrative, bilanciando in modo accurato la realtà dell’emigrazione e il mito di quello che Russell M. Managhi ha chiamato lo «spirito di esplorazione» degli italiani («Italian Contributions to the Development of Alaska», Italian Americana, ix, 2, 1991, p. 167).
Tommaso Caiazza