Negli ultimi anni sono cresciuti progressivamente gli studi concernenti il flusso migratorio italiano in direzione dei principali paesi dell’Europa occidentale durante il secondo dopoguerra. Benché oramai abbastanza articolata, questa storiografia ha, però, generalmente trascurato un aspetto importante e quantitativamente rilevante del fenomeno: l’emigrazione clandestina degli italiani. Tale tematica viene indagata nel volume di Sandro Rinauro.
L’Autore concentra le sue ricerche, in modo particolare, sull’asse temporale che va dalla fine del Secondo conflitto bellico all’entrata in vigore della normativa sulla libera circolazione dei lavoratori comunitari, ovvero sul periodo durante il quale il fenomeno della clandestinità raggiunse i livelli più significativi. Non manca, tuttavia, di far riferimento – seppur brevemente – a quelle migrazioni non autorizzate che si mossero nel periodo liberale e in quello fra le due guerre mondiali. Proprio in quegli anni si cominciarono a delineare le condizioni, i motivi, le modalità e persino le vie e le figure dedite al traffico di clandestini che avrebbero connotato gli sviluppi successivi della vicenda.
Rinauro, inoltre, focalizza l’indagine sulla situazione dei clandestini italiani diretti nei principali paesi industrializzati dell’Europa, con lo sguardo rivolto in modo precipuo al caso francese. Il motivo principale per cui il flusso irregolare volse in direzione delle nazioni europee fu dettato dalla contiguità territoriale e dalla facilità con cui era possibile superare le ipotetiche frontiere (passando a piedi per i valichi alpini, oppure in barca o a nuoto); al contrario riuscire a imbarcarsi per il Nuovo Mondo senza essere scoperti era una prova che pochi riuscivano a superare. Molti entravano in Francia con il permesso turistico, per poi raggiungere illegalmente la Svizzera o il Belgio e passare allo status di clandestini. La ricostruzione europea si giovò delle numerose braccia italiane, anche e soprattutto di chi non poteva avvalersi di nessuna tutela nei rapporti di lavoro. I trattati bilaterali e la normativa comunitaria prevedevano l’opportunità di ottenere un impiego in Europa solo per un numero limitato di italiani, a fronte di un elevato tasso di disoccupazione in Italia e di una certa disponibilità di posti sul mercato del lavoro all’estero. Così l’unica strada per sopperire al divario era proprio quella dell’illegalità. Da questa constatazione Rinauro parte per indagare i motivi più insiti, complessi e specifici delle migrazioni clandestine.
Un aspetto interessante di questa ricerca è il grande spazio occupato dalla descrizione del viaggio e dall’esame delle difficoltà abitative e di permanenza nel luogo di residenza: tutti elementi che incisero sulle condizioni di vita e sul grado di integrazione degli immigrati italiani anche nei casi in cui riuscirono a regolarizzare la loro posizione.
La parte più consistente del volume è dedicata alla trattazione dell’espatrio di clandestini italiani in Francia, la principale destinazione di chi emigrò illegalmente. Le cifre fornite dall’Autore aiutano a comprendere l’entità del fenomeno: nel quindicennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, più della metà della manodopera italiana in Francia era giunta nel paese senza alcuna autorizzazione, mentre la percentuale dei clandestini saliva al novanta per cento tra i familiari dei lavoratori. Nel libro vengono esposte le cause che generarono un fenomeno di tali proporzioni ed è illustrato perché, in un’epoca in cui il mercato francese necessitava con una certa urgenza di manodopera, si andarono creando le condizioni per un’emigrazione non propriamente legale. Rinauro identifica queste ragioni innanzitutto nella politica migratoria portata avanti dai due paesi. I ritardi burocratici, il numero esiguo di lavoratori ufficialmente richiesti e la loro tipologia, oltre alla mancanza di alloggi adeguati e in quantità corrispondente alle esigenze di una manodopera regolare, spinsero molti a non seguire i percorsi legali. In alcune fasi furono anche le stesse autorità governative francesi a sostenere gli arrivi dei clandestini, perché questi costituivano una compagine di lavoratori facilmente ricattabile e economicamente conveniente. Inoltre, molti clandestini furono assoldati dalle imprese con il beneplacito di chi si trovava nella posizione di vigilare o di gestire gli arrivi, un fenomeno che rende emblematico il caso francese.
Nell’ultimo capitolo, già anticipato in parte in un saggio su Altreitalie (31, 2005), viene ricostruita la vicenda degli italiani che si arruolarono nella Legione Straniera. Molti finirono a combattere, se non a morire, nelle guerre di Indocina e di Algeria, pagando il prezzo più alto per un sogno di riscatto.
La quantità di avvenimenti, trattative e attori presi in considerazione – anche grazie a uno scavo imponente di documentazione archivistica – fornisce nuovi e interessanti spunti per un ulteriore approfondimento della situazione degli emigrati italiani in Europa nel secondo dopoguerra. Inoltre, il volume offre un contributo agli studi sull’integrazione europea, sia per la comprensione delle dinamiche, delle strategie e degli interessi dei sei Stati fondatori della Comunità Europea nei primi negoziati riguardanti la libera circolazione dei lavoratori, sia per l’analisi della vicenda della Comunità Europea di Difesa in relazione all’esperienza dei legionari italiani.
Infine, la ricerca di Rinauro si segnala per le sue meritorie implicazioni nell’uso pubblico della storia. Oggi, quando si parla di emigrazione clandestina, il pensiero va quasi immediatamente a quegli individui che ogni giorno tentano di varcare illegalmente la fortezza europea nella speranza di raggiungere i principali centri economici e industriali del continente. Rispetto a una vulgata che vede nei clandestini il prodotto di un recente processo di globalizzazione, Rinauro mette in luce come le migrazioni illegali non siano una componente esclusiva degli esodi odierni, ma rappresentino un elemento antico e nodale dei flussi migratori europei e italiani (pur con tutte le ovvie differenze maturate nel tempo).
Maria Pina Giaquinto