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42 anni, Buenos Aires, Argentina, Consulente Aziendale

Intervista registrata il 03.04.2009

           

 

Mio padre é morto nel settembre del 2006 a 73 anni, mi amava molto; é uno dei motivi per cui sono venuta qua. Io avevo 35 anni e avevo un po’ di problemi di lavoro, facevo consulenza di direzione ad amministratori delegati, a dirigenti, gli facevamo organizzazione marketing, finanza, insomma di tutto, a Milano, peró vedevo che i miei colleghi di lavoro maschi erano sempre un passo avanti rispetto a me, loro facevano carriera ed io no perché ero femmina. Io sono laureata in Economia e Commercio alla Bocconi, l’ho fatta per influenza familiare, io volevo fare Scienze politiche e mio padre, che era professore all’universitá di economia a Firenze, pur non costringendomi, mi ha convinto che Economia era meglio, era più valida. Io sono molto competitiva e poi andando a Milano me ne andavo via di casa, tutto pagato, in una universitá che a quel tempo era molto prestigiosa, entrava uno su dieci, se restavo a Firenze sarei stata la figlia del professore e questo io non lo volevo.

A Milano ho lavorato 7 anni in azienda, i capi erano tutti maschi ed io capito che non avrei fatto mai carriera, mi dicevano hai 35 anni non vuoi fare dei figli? Avere una famiglia? Poi era un ambiente molto competitivo e non avevo molti amici quindi, dal punto di vista professionale, ho avuto come una crisi di rigetto anche se guadagnavo bene. Poi, dopo la morte di mio padre, ho cominciato a farmi delle domande, ho capito che quando ti vengono a mancare i genitori ti cambia la vita per sempre e capisci che  nasci e muori solo, forse circondato solo dagli affetti piú intimi.  Lavoravo 15 ore al giorno, il lavoro é una droga nel momento in cui ti consente di non pensare a te stessa, é la scusa perfetta, é bellissimo, era il mio alibi perfetto e da lí ho pensato a un cambio. Mi sono licenziata e mi sono messa a collaborare con altri ma continuavo a farmi la domanda se stavo facendo veramente quello che volevo; mio padre sempre mi diceva che «il piú bel regalo della vita é fare quello che ti rende felice se no non ha senso viverla». I soldi ti facilitano, sono uno strumento ma non un fine. A quel punto mi sono presa tre mesi sabbatici, dopo la sua morte e ho deciso di fare un giro in America del Sud, perché non c’ero mai stata, perché era in inverno e volevo andare al caldo e perché non volevo passare il Natale in Italia e qui avevo un amico carissimo che si era trasferito con la famiglia per cui ho visitato il Brasile da sola e poi qui un mese in Argentina dove dopo dovevano raggiungermi anche degli amici dall’Italia per fare insieme un Natale diverso. Qui in Argentina ho subito capito che era un posto dove si poteva vivere, immediatamente: il cibo mi ha fatto sentire questo. Quando ero stata in Palestina, il cibo era quello che mi aveva fatto soffrire di piú, mi ero sentita un’estranea, un’espatriata che mai si puó integrare: gli odori della colazione diversa, l’odore del caffé che non era la moca, il cibo completamente diverso, tradizioni completamente diverse, per esempio il fatto che quando dopo una cena servi il caffé é come un segnale e tutti vanno via. All’inizio non lo sapevo e quando gli amici palestinesi mi venivano a trovare io, orgogliosa della moka e del mio caffé che mi portavo in valigia, gli offrivo subito un caffé per cui loro andavano subito via ed io pensavo di essergli antipatica finché ho capito, lá prima si offre il té, se offri il caffé é un segnale per andarsene. Il novanta per cento degli espatriati che io ho conosciuto fuggono dalla noia, hanno una vita che a raccontarla é splendida ma mentre te la raccontano hanno sugli occhi un velo di noia che avevo il terrore di avere anch’io. Qui non mi sento espatriata, faccio la vita di un italiano senza sentirmi estranea, mi sento che vivo in una mescolanza tra Madrid e Milano, piú Milano che Madrid, in un posto dove riconosco gli odori e i sapori e le abitudini sono simili. Qui culturalmente non ho problemi, c’é la brioche al mattino, c’é il Corriere della sera, se chiedi un cappuccino o un caffé macchiato non ti guardano male.

Mio padre non era un grande avventuroso ma il suo ultimo viaggio avventura che io mi ricordo fu l’Argentina, l’Uruguay e il Brasile nel 1985, un mese. Lui é stato invitato in Argentina dai Lisero, piemontesi amici con cui non avevo perso i contatti peró, piú che tutto, avevo questo mio amico Andrea che si era trasferito qui ed é stato lo stimolo piú grande. Sono venuta la prima volta a Natale poi sono ritornata in Italia e poi nuovamente sono venuta in giugno, 3 settimane, e ho conosciuto Carlos e avevo un progetto di lavoro con Andrea e quindi sono venuta definitivamente, un occasione per trovare la propria strada.

Qui sento che ho meno pressione sociale, forse in Italia ricostruirmi, ribaltare una vita negli stessi luoghi era piú difficile, qui sento che sono solo io, quindi ho meno vincoli. Qui é molto provinciale, mi sembra di essere a Roma, se non sei presentato, se non sei in un giro, se non sei introdotto é difficile creare legami. Milano é una cittá unica al mondo secondo me per questo, é estremamente democratica, accogliente, non devi stare in nessun circolo per essere accolto, devi solo avere le competenze per starci. Qua é un po’ piú da circo, peró, avendo dei legami a livello soprattutto professionale, non ho avuto grandi difficoltá nel lavoro per quanto qui sia molto difficile lavorare perché c’é diffidenza, perché magari hanno meno desiderio di pagarti, pensano che tu sei del primo mondo e loro sono del terzo; l’argentino non é una persona di cui io normalmente mi fiderei ad occhi chiusi, sono furbetti, scaltri. Socialmente ho trovato l’Argentina estremamente accogliente al principio, ti dá questa sensazione di meraviglia, non mi sentivo mai sola quando sono venuta in vacanza, peró poi, strigi stringi, le relazioni umane sono abbastanza difficili da costruire, le persone sono molto avviluppate in se stesse, nei propri problemi e nelle proprie paturnie, molto problematiche, questa patina di ridere e scherzare é proprio solo una bella patina peró, gratta gratta, non c’é molta sostanza. A me dá fastidio da morire essere chiamata “la tana”, lo trovo dispregiativo e un po’ allontanante, discriminante. Ecco, la parola argentina “chanta”, di cui adesso capisco il significato, indica persone poco affidabili, che dicono, dicono e non fanno, caratteristiche che mi pesano. Poi io vivevo in un intorno sociale di amici di una vita di cui ti fidi e qui faccio un po’di fatica a ritrovare questo genere di atmosfera, peró la cittá é cosí ricca di cose da fare, offre talmente tanto che, anche se le persone, la maggior parte, le trovo abbastanza mediocri, non é che mi fa soffrire particolarmente, non sento la mancanza di un intorno sociale forte.

Qui, mi con resa conto fin dall’inizio che, se non hai bisogno di niente son tutti fantastici, nel momento in cui hai bisogno di qualcosa...  la cosa si liquefá.

 

Io mi sto faticosamente creando un mondo che sia, diciamo, non alternativo al mondo aziendale, peró voglio cercare altre esperienze, mi sto prendendo anche questo momento della pancia – perché sono incinta – come una specie di vacanza da questo mondo anche se ad esso sono ancora collegata. Mi sono scoperta un po’ mono-attivitá cioè finché mi dedicavo al lavoro facevo solo quello e il resto era accantonato, ora il progetto di una famiglia mi assorbe, é una sfida, voglio dei tempi di vita un po’ diversi, piú compatibili. Da giovane pensavo che la carriera fosse tutto e che dovesse assorbire tutti i miei interessi, qualsiasi scelta era definitiva, adesso, a 38 anni, penso che questo é un anno della mia vita che investo in altro, per me é stata una grande conquista e venire in Argentina me l’ha reso piú facile, perché é tutto nuovo, é un luogo dove sperimentare altro. Quello che mi aveva sempre fatto molto male in Italia era che ti vivono come una persona assolutamente specializzata, tu non puoi essere altro che un consulente di direzione, non puoi essere altro che un bocconiano, appena dici che fai qualcos’altro é giudicato male, cambia l’espressione della faccia delle persone. Qui i primi mesi io, quando dicevo che cosa facevo, che facevo consulenze a piccole medie aziende, mi rispondevano « e poi?» ed io non avevo un «e poi». Io avevo questo tipo di set mentale e tuttora un po’ ce l’ho, quando sento che qui tutti fanno moltissime attività diverse oltre al lavoro, e a volte mi chiedo se hanno il tempo di concentrarsi in tutto quello che fanno, peró questa é la ricchezza che io ho incontrato qui, il fatto che c’é possibilitá per tutti. Io per esempio non avrei mai pensato di fare una mostra fotografica e la sto facendo, «Colas Argentinas» con altri compagni del corso di fotografia che faccio, stiamo raccogliendo il materiale e abbiamo trovato un posto dove esporre a fine maggio. Cose che in Italia non avrei fatto mai, a Milano soprattutto: se lo fai sei una disadattata sociale, io non avevo il tempo di fare nient’altro che lavorare, facevo la spesa per mangiare negli aeroporti negli ultimi tempi. Quando ho smesso di lavorare avevo un conto in banca impressionante per i miei standard perché non avevo tempo di spendere, non avevo tempo di fare nulla, neppure di respirare: e di questi soldi che me ne facevo? Non era vita. Avevo un fidanzato che scappava tutti i fine settimana, la sindrome che hanno tutti i milanesi; andavo da una strizzacervelli perché mi rendevo conto che proprio tanto felice non ero, soprattutto per i problemi di lavoro. Lei mi disse due cose che mi impressionarono: una, che non mi rendevo conto di quanta gente va da una strizzacervelli per problemi di lavoro e questo per me fa il paio con chi consuma cocaina per lavorare di piú e, la seconda cosa, in sostanza é che io arrivavo dove sarei potuta arrivare con le mie forze, lei avrebbe potuto darmi degli strumenti peró io non sarei mai diventata né Claudia Schiffer né l’amministratore delegato di Telecom Italia, era un po’ tardi. Io andavo da lei il lunedí pomeriggio peró in ufficio non potevo dirlo, era vietato dirlo, entravi nel mondo dei pazzi, mi avrebbero catalogato come donna isterica, per cui ho sempre inventato cose per andarci, problemi, rotture di macchina, inondazioni in casa ecc. Era stressante e poi dopo un anno e mezzo ho smesso di andarci.

Qui mi sento in stage, come quando all’universitá ti dicono «vai a lavorare per vedere la realtá per sei mesi» ed io ora mi sento cosí, mi sto sperimentando nella realtá e nella vita vera degli adulti, in tutte le cose che ho imparato finora e mi piace. Buenos Aires é stata un colpo di fulmine per la bellezza della cittá, l’offerta culturale, l’italianitá, ma non é mai stata una luna di miele acritica da cui poi ti svegli: i difetti li vedo e li vivo peró preferisco cosí. L’America Latina é in questo momento uno splendido posto in cui stare, é un continente libero dalle pesantezze che attanagliano l’Occidente, é una liberazione prendere la metropolitana senza gli allarmi bomba, aprire il giornale senza le notizie della guerra, ascoltare la radio senza le notizie sulla disoccupazione e la povertá. Qui ci sono problemi peró é un po’ meridionale, tutti si lamentano peró tutti poi sopravvivono, qui e là c’è l’arte di lamentarsi, bisogna fare la tara, devi toglier un po’ questa teatralitá, é molto teatrale questo posto.

 

Rapporti con la collettività

 

Io sono privilegiata perché posso confrontare gli italiani che ho conosciuto qua con la comunitá degli espatriati in Palestina, uno dei tipici luoghi dove incontri imprenditori italiani che sono estremamente coraggiosi nei luoghi di guerra e di frontiera e poi la comunitá della diplomazia e dei mezzi di comunicazione, che erano personaggi agghiaccianti nel loro essere. Qui sono parte integrante della vita, non é una collettivitá a sé che fa la vita dell’espatriato, é un pezzo di Buenos Aires. Non mi sembra una cosa aliena dalla realtá quotidiana, per quanto alcuni dell’ambasciata facciano una vita assolutamente «fuori», peró la comunitá di per sé é radicata, non come in altri posti tipo Giamaica, India, Messico dove son tutte persone che scappano dall’Italia e si fanno il loro intorno rifacendosi alla lora italianitá, facendosi la loro pasta e il caffé che si portano nelle valigie eccetera, son terribili.  Qui la comunitá italiana non parla del suo dover mantenere l’appartenenza perché se no non si sopravvive alla malinconia della lontananza: qui sono tutti imprenditori, gente che lavora, quasi tutti integrati, hanno superato questo, fanno la vita di tutti, nessuno viene a cercare se stesso, si fa la vita di una qualsiasi cittá italiana. Eccetto quando ti invitano a prendere il mate che non mi piace, é acqua calda amara, per me non ha senso.

Ho intervistato alcuni responsabili della comunità italiana: li vedo mortalmente noiosi, anziani che non sanno come riciclarsi, sono venuti via dal loro paese spesso in condizioni di miseria e ignoranza e si sono portati dietro una Italia che non esiste piú, la bandiera, il 2 di giugno, la patria, il cibo, le relazioni familiari, tutto non esiste piú o per lo meno non in questi termini. Fanno molta fatica a trasmettere la cultura ai figli e ai nipoti, per cui é pieno di gente con passaporto italiano che non sa che farsene, e da una parte é meglio perché per questo sono piú integrati si sentono più argentini che altro mentre la comunità mi sembra ingessata. Adesso però ci sono queste nuove forme di immigrazione che mi piacciono di più, persone che sono venute coscientemente. L’Argentina smette di essere un paese di elite ricca borghese, per la prima volta in epoca moderna diventa accessibile a tutti. Prima era l’uno a uno o era la iperinflazione o era la dittatura, quando io son cresciuta l’Argentina era un tabú perché era una dittatura come la Grecia e la Spagna per la generazione prima della mia, chi ha fatto il ’68 ha conosciuto questi paesi così. Per noi sui quarant’anni l’Argentina é un fenomeno nuovo, é questo é un grande fermento e poi per la prima volta gli Stati Uniti stanno guardando da tutt’altra parte, hanno smesso di guardare a questo continente, c’é un senso di libertá, la libertá si sente. C’é la possibilitá di creare una coscienza di continente, una identità, i leader si vedono tutti i giorni, non ci sono piú scuse e il continente si guarda in faccia, é una rinascita e si sente, mentre l’Europa é ripiegata su se stessa e si sente, lì appoggiano i piedi su una prosperitá effimera basata sui derivati, i future, le speculazioni di borsa.

C’é una crisi perché la ridistribuzione delle risorse adesso avviene attraverso le famiglie, prima era dello stato, pagavi piú tasse ma avevi la possibilitá di progredire. Adesso i lavori sono precari e mal pagati e devi appoggiarti ai genitori e ai nonni che poi te lo fanno pesare, non vai via di casa fino ai 35 anni e c’é il declino di questi giovani che sono meno intraprendenti proprio per questo.

 

Voto italiani all’estero

 

Sono arrabbiatissima perché la legge italiana fa schifo. In Francia, anche se ci sei solo per turismo, tu puoi votare tramite ambasciata, qui devi iscriverti all’aire e votare per i rappresentanti della collettività che fanno schifo.

La legge italiana é da una parte punitiva, cioè non puoi votare dove non risiedi, in teoria per evitare brogli che poi ci sono lo stesso. Dall’altra é positivo votare per dei rappresentani all’estero, peró nella misura in cui si votano per rappresentarci e non per tenere in piedi un governo, questa é una cosa brutta. Le organizzazioni dei partiti all’estero poi sono una emanazione degli italiani e qui non c’é volontarismo, tutta la parte di campagna elettorale é pagata, i ragazzi che fanno volantinaggio sono pagati e non sanno neppure di che cosa parlano e lí sono rimasta delusa, io ingenuamente mi sono offerta per il volontariato e mi hanno detto di no. Quelli che votano hanno un passaporto ma a volte non parlano neppure la lingua; alle volte viene vista come cosa lontana, che te ne frega a te dell’Italia, francamente, questo interessa solo al candidato che vuole essere eletto e che poi va al senato a guadagnare 9.000 euros al mese. In Europa é diverso, la comunitá italiana é fresca, é totalmente diversa, ci sono scambi continui, tu decidi di avere il passaporto italiano perché non puoi averne due, e quindi tu fai parte della comunitá e lo vivi in modo totalmente diverso da qui, e le generazioni si mescolano di piú. Qui non si mescolano, il sessantenne emigrato a tre anni non viene a parlare con me, non ha niente da dirmi, io appartengo a un altra generazione appena arrivata, non trovo niente in comune con le associazioni di qui. Il coro friulano per esempio mi fa tristezza, tu che non parli un corno di italiano e vai a imparare un dialetto del novecento che magari in Friuli non parlano piú invece di dare la possibilitá ai tuoi figli di parlare italiano, cosa che potrebbe essere una possibilità di vita diversa… é il culto del passato, di un passato che non é mai esistito, é una malinconia della casa, dei nonni perduti. A volte mi dicono«sì, da piccolo mi parlavano italiano», ricordano certe parole ma sanno solo la regione di origine, non hanno idea da dove vengono. Non é una comunitá italiana questa, é il ricordo di un passato che non c’é. É come esaltare la mia sicilianità perché i miei nonni materni sono andati in Toscana nel 1937, e la mia sicilianità é qualche parola di mia nonna e quello che cucinava e quando sono andata in Sicilia da grande mi sono resa conto di certe cose, ho riconosciuto la casa da certi odori, le melanzane con questa punta di aceto che mangiavo da piccola, il riconoscimento é stato una sensazione istintiva e primaria. Quando ti mancano i genitori e un pezzo di famiglia, uno ricerca queste sensazioni primarie ma questa non é italianità questa, qui non leggono un quotidiano italiano, non sanno niente della politica, non sanno cosa passa in Italia e i programmi che ci sono alla Rai per l’estero sono agghiaccianti, avvilenti.

Qui su 450.000 italiani sono solo 30.000 gli italiani diretti, nati e cresciuti in Italia, siamo pochi. Io sono fortunata perché con le nuove tecnologie la distanza fisica non c’é, La Repubblica online é la più letta in Europa, anche Repubblica tv é la piú vista, cioé emigri ma non abbandoni.

 

Sono tanto contenta di essere emigrata, é una gran bella opportunità.

 

Le donne: differenze tra Argentina e Italia

 

Qui sono più consapevoli del loro essere femmine e sicuramente più aperte al dibattito: per assurdo, almeno quelle che frequento, sono piú liberali delle italiane, più consapevoli di sé, qui per le donne lavorare e andare a vivere da sole é una cosa assolutamente normale, non é un’eccezione. In Italia, dai 35 ai 40, nel mondo del lavoro ne trovi sempre meno che lavorano, cominciano ad essere espulse perché tutto é incompatibile e nel personale vivono sempre di piú questo modello per cui ti devi sposare e avere dei figli, e a 38 anni sei una zitella. Poi le donne italiane sono meno aperte alla possibilitá di fare gruppo e di integrare altre donne: devi essere parte di un certo clan per accedere a certi circoli femminili, anche politicamente impegnati, é tutto più formale. Questo qui non succede, se vuoi fare fai, se non vuoi partecipare non lo fai, qui il problema é che se vuoi essere depressa e disperata e ti chiudi in casa lo puoi fare perché nessuno ti tira fuori dal pozzo nero, in Italia non puoi, gli amici ti tirano fuori dal pozzo che lá non é accettabile socialmente, il pozzo nero te lo devi tenere per te. In Italia c’é una rete amicale molto forte che però ti esclude anche secondo me.

Io penso che per me vale il fatto di condividere delle esperienze, questo mi fa sentire il luogo e le persone più vicine; per me vivere é sempre come se fosse l’ultimo giorno, questo mi serve a stringere dei legami.

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