Fino a poco tempo fa Flavio Giovanni Conti era uno dei pochi studiosi connazionali a occuparsi scientificamente del tema della prigionia italiana in mani alleate. Suo, infatti, il merito di aver affrontato per primo l’argomento con un’amplissima discussione già nella seconda metà degli anni ottanta [I prigionieri di guerra italiani (1940-1945), Bologna, il Mulino, 1986]. Da allora, gli studi su questo argomento si sono moltiplicati, pur restando il tema della «buona prigionia» in mano angloamericana uno dei più trascurati, da un punto di vista storiografico ma anche memorialistico, nell’ambito della storia della cattività durante i conflitti mondiali. Nel nuovo lavoro Conti approfondisce il capitolo che gli sta da tempo più a cuore, quello della detenzione di circa 51.000 italiani negli Stati Uniti, nel periodo dicembre 1942-febbraio 1946. Con questa monografia sulla detenzione americana, l’autore pone rimedio al principale limite del suo volume precedente che, nella sua complessità e ampiezza – e restando, in questo, ancora insuperato – risentiva di un’evidente ristrettezza di fonti, essendosi concentrato unicamente sul materiale proveniente da archivi statunitensi e finendo con il trascurare la documentazione britannica.
Basandosi su un’ampia documentazione archivistica italiana e americana, e su un necessario e costante, ma anche critico, riferimento alla memorialistica disponibile sul tema, Conti affronta in maniera dettagliata le numerose fasi della detenzione dei prigionieri italiani negli Stati Uniti, dalla cattura – in Africa, soprattutto, ma anche in Sicilia e, dopo l’armistizio, ad Anzio e a Nettuno – al rimpatrio. L’opera, divisa in due parti, tratta, nella prima, l’argomento da un punto di vista generale, analizzando tematiche militari e politico-diplomatiche – si veda, ad esempio, l’importante capitolo relativo a «I negoziati» per l’utilizzazione e lo status dei prigionieri di guerra italiani dopo l’armistizio – ma non trascurando di approfondire argomenti complessi anche da un punto di vista «sociologico», come quello della reazione dell’opinione pubblica americana alla presenza dei prigionieri stessi e, soprattutto, quello dell’influenza della potente comunità italoamericana sulla gestione dei connazionali detenuti negli Stati Uniti. Nella seconda parte, prima del discorso relativo ai rimpatri, vi è il racconto di questo importantissimo capitolo di prigionia attraverso la storia dei principali campi di detenzione, a partire dalla loro edificazione e dalla loro organizzazione gestionale interna. I campi esaminati, da quello molto noto di Hereford, impropriamente definito «fascista» da uno dei suoi «ospiti» più famosi, Roberto Mieville, a quelli meno conosciuti situati nel Missouri, nel Tennessee, in California, nelle Hawaii e così via, sono scelti in base a caratteristiche di rappresentatività di una realtà di prigionia assai variegata e distribuita in più di 140 strutture collocate in tutto il territorio statunitense. Posizionati inizialmente per rispondere a esigenze puramente detentive, con il passare del tempo e soprattutto dopo l’avvio della cooperazione, i campi che ospitarono i prigionieri italiani furono collocati perlopiù sulla scorta delle necessità di manodopera manifestate dai vari settori occupazionali. Il lavoro svolto dagli italiani, connesso o no alle operazioni belliche, è un altro elemento centrale della storia ricostruita da Conti: i prigionieri – tali rimasero gli italiani, per tutto il tempo della loro permanenza negli Stati Uniti, anche se cooperatori e inquadrati nelle Italian Service Units – furono impiegati in agricoltura, nella raccolta del cotone, nella manutenzione delle strade, nelle fabbriche, oltre che all’interno dei campi stessi, dove furono cuochi, sarti, falegnami e così via.
Altro importante e opportuno approfondimento è quello relativo alla non cooperazione. Attraverso l’analisi di casi individuali e di parametri collettivi, Conti conferma che l’opzione a favore o contro la collaborazione con i detentori fu conseguenza, nella maggior parte dei casi, anche per gli italiani in America, di ragionamenti assolutamente non politici ma pratici o «etici»: la speranza del rimpatrio o di una maggiore libertà, la protesta per il mancato cambiamento di status e la «ribellione della dignità offesa» (p. 297), scrive l’autore citando le parole di uno dei più noti prigionieri di Hereford, Aurelio Manzoni. Successivamente, quando le posizioni si chiarirono e Hereford divenne il campo destinato ai non cooperatori più intransigenti (tutti gli ufficiali) – tra loro, ricorda Conti sempre con le parole di Manzoni, «alcuni dei più begli intelletti italiani del nostro tempo» (p. 285): gli scrittori Giuseppe Berto, Dante Troisi, Gaetano Tumiati; il pittore Alberto Burri; il musicista Mario Medici; il matematico Mario Baldassarri, e altri – la scelta di non cooperare fu compiuta da fascisti come Mieville, comunisti come Dello Jacovo, intellettuali che sarebbero diventati cittadini consapevoli della nuova Italia democratica, come il professor Renzo Barazzoni, convinto che non ci si potesse accodare al vincitore rifiutando «la parte di responsabilità che ci siamo assunti condividendo, di fatto, quella, ben più grande e terribile, di aver precipitato l’Italia in guerra» (p. 297).
La detenzione degli italiani negli Stati Uniti, definita da Conti la migliore da un punto di vista materiale che i soldati delle forze armate regie dovettero subire durante il secondo conflitto – e tuttavia sottoposta, in alcuni casi, a dei ricatti altrove impensabili: si pensi alla netta riduzione, nella primavera del 1945, delle razioni alimentari distribuite a Hereford, come forma di punizione per la mancata cooperazione e per la scoperta del trattamento riservato ai prigionieri in Germania – non fu ovviamente sempre conforme alle norme della Convenzione di Ginevra e non mancarono episodi di netta violazione e di veri e propri soprusi, al limite del crimine di guerra: Conti racconta, infatti, di aggressioni, ferimenti e addirittura uccisioni di prigionieri da parte di sentinelle troppo spesso inadatte al compito assegnato loro. Tuttavia, quella degli italiani negli «sua» – come si diceva allora, italianizzando autarchicamente anche gli acronimi – fu una delle esperienze di cattività meno difficili della Seconda guerra mondiale: nell’insieme, i prigionieri mangiarono bene e molto, furono curati in modo adeguato, impiegati in lavori non usuranti e che solitamente svolgevano volentieri, ricevettero una costante assistenza religiosa, poterono usufruire di attività educative e di svago. Soprattutto, furono al sicuro, molto più di quello che erano quando si trovavano al fronte e di quello che sarebbero stati restando in Italia. La loro «buona prigionia» fu una conseguenza di più fattori, che andavano dall’estraneità del territorio dalla linea del fronte alle risorse economiche dei detentori, dalle necessità di «rieducazione democratica e filoccidentale» degli ex nemici all’influenza politica della comunità italoamericana. Soprattutto, il buon trattamento fu l’effetto pratico di un atteggiamento mentale, cioè la convinzione, propria degli Alleati – non solo degli statunitensi – della necessità di una gestione attinente alle normative internazionali relative ai prigionieri, nel contesto di un’auspicata reciprocità e oltre tale ambito.
Ciononostante, anche l’esperienza americana dei prigionieri italiani conservò i caratteri tragici, da un punto di vista psicologico, di ogni cattività: la mancanza di libertà, la lontananza da casa, la difficoltà di avere contatti con le famiglie, l’ostilità della popolazione detentrice, l’inattività e la noia, la sensazione di impotenza e di inutilità, la rigidità di alcuni comandanti nemici, l’indottrinamento e le pressioni politiche e, soprattutto, il tempo apparentemente interminabile della detenzione stessa, furono anche negli Stati Uniti ineliminabili compagni di prigionia.
Il volume, corredato da alcune belle fotografie, si pone come un contributo importante all’interno di un discorso che, taciuto a lungo per motivazioni diverse – dall’attenzione dedicata a esperienze più drammatiche e più utilizzabili «politicamente» (si pensi alla prigionia in Russia) alla necessità di dimenticare in fretta la guerra «italiana» del 1940-43, della quale quei prigionieri erano il simbolo più evidente, e, ancora, al bisogno di non sollevare dibattiti o interrogativi sul comportamento dei «liberatori» angloamericani – sta ricevendo oggi una nuova attenzione, quasi sempre scientificamente strutturata.
Isabella Insolvibile