L’emigrazione italiana verso la Gran Bretagna non ha mai rappresentato un fenomeno rilevante quanto quella verso le Americhe o altri paesi europei come la Francia, la Germania e la Svizzera: essa, infatti, non ha mai raggiunto l’1 per cento del totale dei flussi. Tuttavia rappresenta una storia affascinante, che per certi aspetti ricalca i modelli delle altre storie dell’emigrazione italiana e per altri presenta caratteristiche del tutto singolari.
Il libro di Alessandro Forte, rielaborazione dalla sua tesi di laurea, descrive le vicende di questa emigrazione italiana «minore», focalizzandosi sulla capitale inglese. Il volume si divide in due sezioni: la prima si incentra sulla nascita della Little Italy negli anni della Londra vittoriana e sulle ripercussioni dello scoppio del Secondo conflitto mondiale; la seconda, basata soprattutto su testimonianze orali, è dedicata al periodo tra gli anni cinquanta del Novecento e i giorni nostri, con una digressione sulla comunità di Bedford. In tal modo, il testo presenta un’inspiegabile lacuna per la Grande guerra e il primo dopoguerra.
Nella prima parte, dopo aver illustrato il sovraffollamento, le precarie condizioni igieniche e la diffusa miseria che caratterizzarono l’iniziale insediamento italiano a Londra, Forte si sofferma soprattutto sulla trasformazione dei mestieri svolti dagli immigrati nel corso dell’Ottocento. Particolarmente nutrita era la presenza di artigiani settentrionali altamente specializzati che si integrarono con facilità, come accadde per il comasco Enrico Negretti e il suo socio Joseph Zambra, produttori di strumenti di precisione. Dalla metà del secolo, però, iniziarono a giungere anche venditori ambulanti, gelatai (i penny ice a cui si richiama il titolo per il prezzo del cono), musicisti ed esuli politici. Per tutte queste figure Forte ama ricordare le storie di successo come quella di Carlo Gatti, un gelataio italosvizzero che riuscì a creare un vero e proprio impero commerciale grazie alla sua capacità imprenditoriale. A tali esperienze, comunque, fecero da contrappunto le ben più tristi disavventure dei bambini suonatori di strada, provenienti prevalentemente dalla Val di Taro e dalle zone di confine tra Lazio, Campania e Basilicata, che raggiungevano Londra a piedi, affidati dai genitori ai cosiddetti «padroni» con contratti fittizi e ridotti in una condizione di vera e propria schiavitù. Di costoro s’interessò inizialmente Giuseppe Mazzini, che nel novembre del 1841 aprì una scuola gratuita ad Hatton Garden.
Forte delinea anche l’assistenza religiosa offerta agli immigrati italiani. In particolare, ricorda la travagliata edificazione della chiesa cattolica di San Pietro, nel cuore della Little Italy, un progetto prospettato fino dal 1852, grazie all’impegno di Padre Raffaele Melia, ma completato solo undici anni dopo. Tuttavia, anche in questo campo emergono carenze nel volume che, per esempio, trascura la figura di S. Vincenzo Pallotti, sebbene fosse stato proprio lui il pioniere della cura spirituale degli emigranti e colui che affidò gli italiani di Londra a Melia.
Dopo il vuoto cronologico richiamato sopra, Forte affronta gli anni trenta del Novecento e la Seconda guerra mondiale. Particolare attenzione ricevono l’attribuzione a tutti gli italiani residenti in Gran Bretagna – compresi gli antifascisti – della qualifica di enemy within, a seguito della dichiarazione di guerra del regime fascista, nonché l’arresto dei maschi di origine italiana di età compresa tra i diciotto e i settant’anni. Seguì la deportazione degli individui ritenuti più pericolosi nei campi di concentramento, sull’isola di Man o addirittura in Canada, una misura sospesa dopo il siluramento, il 2 luglio 1940, dell’Arandora Star, le cui vittime inclusero ben 476 italiani.
La seconda parte del libro si apre con il secondo dopoguerra, quando, tra il 1951 e il 1961, l’immigrazione italiana in Gran Bretagna ebbe un forte incremento. Sulle orme di precedenti studi di Michele Colucci e Terri Colpi, Forte ripercorre la formazione della comunità italiana a Bedford, cittadina poco distante dall’aeroporto di Luton e importante polo industriale nella produzione di mattoni. Qui operava la London Brick Company, una fabbrica che assunse prevalentemente operai di origine meridionale. Sul versante londinese, invece, l’autore si occupa della ristorazione e del settore alberghiero, soffermandosi esclusivamente sulle storie di successo: dai cinquecento Italian coffee bar che, negli anni sessanta, conquistarono la capitale britannica alla diffusione delle macchine da caffè Gaggia, passando attraverso la storia della catena di alberghi di lusso di Carmine Forte, barone di Ripley, il primo italiano ad essere nominato membro permanente della Camera dei Lord pur non essendo nato nel Regno Unito ma a Monforte, in provincia di Frosinone. Ma è soprattutto sulla storia delle trattorie italiane che si concentra il testo, che ricorda la Trattoria Terrazza di Mario Cassandro e Franco Lagattola, la catena Spaghetti House di Simone Lavarini e Lorenzo Fraquelli, nonché i ristoranti di grido di Mauro Sanna, specializzati nella cucina regionale sarda.
Tra tante luci, non mancano le ombre, rappresentate dai numerosi giovani italiani tossicodipendenti che, a partire dagli anni ottanta, si sono ritrovati nelle le carceri londinesi o nei centri di riabilitazione, spinti a espatriare alla volta della capitale britannica dai migliori standard assistenziali e sanitari inglesi. Ma, ancora una volta, Forte predilige le note positive. Così, nella sua ricostruzione, la Londra dell’eroina cede presto il passo alla City, la capitale della finanza europea che ha attratto banchieri e aspiranti finanzieri italiani, come Enrico Bombieri e Filippo Gori, due dei massimi dirigenti della banca statunitense J. P. Morgan. Con questi flussi viene a chiudersi il cerchio dell’emigrazione qualificata che, se all’inizio dell’Ottocento era stata rappresentata da artigiani iperspecializzati del Settentrione, oggi è costituita da giovani laureati provenienti dalla medesima area, tra i quali non mancano medici e ricercatori.
Nonostante il taglio celebrativo del volume tenda a evidenziare i successi di due secoli di presenza italiana a Londra, Forte afferma che «Non è facile stabilire se ci voglia più coraggio a restare o a partire» (p. 246). La sua conclusione è, pertanto, la formulazione dell’augurio che tutti gli emigranti che ha incontrato a Londra e gli hanno fornito le informazioni per il suo studio conservino nel cassetto un biglietto di ritorno per l’Italia che, per ripartire, ha bisogno anche di loro.
Rossana Longobucco