A partire soprattutto da una fondamentale monografia di Nancy C. Carnevale (A New Language, A New World. Italian Immigrants in the United States, 1890-1945, Urbana, University of Illinois Press, 2009), studi recenti hanno messo in luce la centralità della lingua per la definizione dell’identità etnica delle diverse generazioni dei migranti italiani. Eppure le principali collettanee sulla cosiddetta «diaspora» dalla Penisola (Storia dell’emigrazione italiana, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001-2002; Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009) hanno trascurato questa tematica, sebbene si siano soffermate sugli aspetti letterari dell’esperienza migratoria. Risulta, pertanto, quanto mai tempestivo e significativo l’argomento che il Calandra Institute ha scelto per la sua sesta conferenza annuale. Pur senza alcuna pretesa di esaustività, le relazioni hanno affrontato il rapporto tra lingua ed emigrazione italiana in una molteplicità di contesti geografici che hanno permesso all’assise di offrire uno spaccato ad ampio raggio, sia nello spazio sia nel tempo, per tale problematica.
Per quanto riguarda l’ambito americano, Naomi Nagy ha presentato i dati di una ricerca sulle variazioni linguistiche nel passaggio da una generazione all’altra in un campione della comunità italocanadese di Toronto, mettendo in rilievo come la lingua italiana sia rimasta sostanzialmente immune da contaminazioni con l’inglese. La stabilità dell’italiano è stata attestata anche dall’intervento di Luciana Fellin sui professionisti trasferitisi negli Stati Uniti tra il 1994 e il 2003, nell’ambito della «fuga dei talenti». I «nuovi mobili», infatti, continuano a parlare la lingua in famiglia e nelle riunioni conviviali fra loro, oltre a farla imparare ai figli, non solo perché ritengono l’italiano una componente imprescindibile della propria identità, ma anche in quanto vedono nel bilinguismo uno strumento in grado di favorire il successo nella vita lavorativa e sociale. Tale, invece, non è stato l’atteggiamento dei componenti delle precedenti ondate immigratorie italiane negli Stati Uniti. Come ha messo in rilievo la relazione di Hermann H. Haller, la constatazione che – secondo i dati del censimento federale della popolazione del 2010 – meno di un ventesimo degli statunitensi che si attribuiscono radici italiane parli oggi la lingua dei propri antenati a casa è ascrivibile al fatto che per lungo tempo l’uso dell’italiano, in passato, è stato associato con il fallimento nella scuola e nella vita. A maggior ragione la decadenza ha colpito i dialetti che sono stati penalizzati dal biasimo di essere considerati lo strumento di comunicazione delle persone prive di istruzione. Così i soggetti di un campione di italoamericani usato da Haller per il suo studio ricordano ancora, accanto alla confusione linguistica sperimentata in gioventù, il paradosso di una situazione in cui i nonni che parlavano in dialetto tra loro ne scoraggiavano la pratica da parte dei figli e dei nipoti.
L’unico intervento incentrato sull’America Latina è stato quello di Elisa Legion sul cocoliche, l’italiano creolizzato molto diffuso tra gli immigrati italiani in Argentina tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. In particolare, la relatrice si è soffermata sul successo di questa forma di meticciato linguistico in alcuni testi teatrali coevi, segnati dall’impegno sociale, nei quali il cocoliche risultava un mezzo di negoziazione e di inclusione per gli immigrati.
Particolare attenzione ha ricevuto l’emigrazione italiana lungo le coste del mediterraneo meridionale. In quest’area, grazie alla ramificazione dei flussi, l’italiano ha goduto della funzione di una sorta di lingua franca dalla prima metà dell’Ottocento quasi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. All’interno del nucleo di relazioni su questo ambito geografico, Alessandro Orfano è ricorso all’esame della lingua per tracciare una storia della comunità ebraica di Tunisi, di origine in prevalenza livornese, costituita da una serie di ondate iniziate con i proscritti della carboneria risorgimentale e conclusesi con gli esuli antifascisti. Daniele Combierati si è occupato del senso della pluriappartenenza che emerge dalla produzione letteraria degli ebrei italiani che scelsero di restare in Libia dopo la Seconda guerra mondiale fino a quando non furono costretti a lasciare il paese dopo l’avvento al potere di Mu’ammar Gheddafi nel 1969. Questo approccio postcoloniale in una prospettiva italiana ha connotato anche l’intervento di Melina Masterson sulla scrittrice italoetiope Gariella Ghermandi. La constatazione che questa autrice ricorra all’italiano costituisce di per sé una sfida al luogo comune secondo cui la letteratura postcoloniale dovrebbe raccontare storie di opposizione al colonialismo in una lingua diversa da quella dei colonizzatori.
Annemarie Tamis-Nasello ha, invece, affrontato il nazionalismo dei «coloni» italiani nell’Africa orientale, quale emerge anche attraverso forme di cultura coeva di massa come il film Il grande appello (1936) di Mario Camerini. La relazione è collocabile in una serie di interventi collaterali rispetto alla tematica centrale del convegno. Tra questi ultimi sono da segnalare soprattutto altri due. Mary-Faith Cerasoli ha analizzato il problema delle traduzioni italiane del romanzo di John Fante, Wait until Spring, Bandini e, in particolare, la difficoltà di rendere le espressioni più colloquiali e gergali. Jefferson Triozzi e Anna De Fina hanno utilizzato un sondaggio online per mettere in luce come gli aspetti più stereotipici del reality Jersey Shore vengano generalmente considerati le manifestazioni più tipiche della cultura italoamericana odierna.
Infine, un gruppo di relazioni si è occupato della lingua degli odierni immigrati in Italia per interrogarsi, in particolare, su cosa si possa intendere per identità italiana in una nazione sempre più globalizzata. Da un lato, Anita Pinzi e Viktor Berberi si sono dedicati ad autori albanesi, rispettivamente Gëzim Hajdari e Ornela Vorpsi. Dall’altro, Elizabeth Venditto e Grace Russo Bullaro hanno, invece, esaminato l’oramai celeberrimo Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2006) dell’algerino Amara Lakhous. Il convegno ha così aperto anche una finestra sul come l’italiano sia divenuto pure la lingua dei migranti che hanno scelto l’Italia come destinazione.
Stefano Luconi